In Sudan c’è ancora una situazione di panico, incertezza e caos generalizzato. A cinque settimane dall’inizio degli scontri fra l’esercito regolare del generale Abdel Fattah al-Burhane e le Forze paramilitari di supporto rapido (Rsf) del generale Mohamed Hamdane Daglo, la tregua di una settimana siglata a Gedda il 20 maggio, che doveva garantire il transito di militari, civili e l’arrivo degli aiuti umanitari, è stata rotta la mattina del 23 maggio. A Khartoum ci sono stati raid aerei e bombardamenti. Elicotteri dell’esercito hanno bombardato postazioni dei paramilitari ad Omdorman, la zona della capitale ad ovest del Nilo. Le due parti si accusano a vicenda di aver violato il cessate il fuoco.
“In Sudan ci sono bande di militari e civili che saccheggiano fabbriche, negozi e case, anche perché la gente ha fame e non trova cibo. C’è il rischio epidemia per i tanti cadaveri nelle strade. Ora il timore è che gli scontri si diffondano in altre aree del Paese. Speriamo non diventi una guerra civile generalizzata utilizzando le motivazioni etniche”. Lo racconta al Sir Fabrizio Cavalletti, responsabile dell’ufficio Africa di Caritas italiana, in contatto con la Chiesa locale e la Caritas in Sud Sudan, che sta accogliendo centinaia di migliaia di profughi al confine.
“Sono profughi sud sudanesi rientranti che hanno bisogno di assistenza totale – spiega Cavalletti -. Fuggono dalla violenza e dagli scontri, non hanno nulla con sé.
Servono cibo e beni primari, ripari di urgenza, alloggi in altre zone del Paese per smorzare la pressione di profughi alle frontiere”.
La maggior parte dei missionari e delle organizzazioni internazionali, tra cui diverse Caritas nazionali, hanno lasciato la capitale Khartoum. Caritas Sudan attualmente non è operativa. I comboniani e i salesiani hanno spostato i religiosi in luoghi più sicuri all’interno del Paese.
Le stime vanno da un minimo di 50.000 fino a 300.000 sud sudanesi che si erano rifugiati in Sudan durante gli anni della guerra civile e ora sono stati costretti a rientrare. “La contabilità dei morti e degli sfollati è molto sottostimata – precisa – perché chi fugge spesso non si registra presso le agenzie umanitarie”.
Attive nell’assistenza dei profughi in Sud Sudan sono alcune Caritas diocesane e la Caritas nazionale, particolarmente sotto pressione in questo periodo. La Caritas di Malakal, ad esempio, ha messo a disposizione
un battello sul Nilo per mettere in salvo i profughi che si accalcano al confine e li assiste con beni di prima di necessità.
Si tratta di una emergenza nell’emergenza, perché in Sud Sudan è già in corso da tempo una gravissima crisi alimentare e umanitaria. All’interno del Paese sono almeno 2 milioni gli sfollati, a causa del conflitto che dal 2013 al 2018 ha provocato un milione di morti e un totale di 10 milioni di rifugiati e sfollati, anche nei Paesi limitrofi.
Una emergenza nell’emergenza. “Noi avevamo già progetti di emergenza in Sud Sudan per la crisi alimentare – spiega Cavalletti -. Ora stanno impegnando le stesse risorse. Come Caritas italiana abbiamo dato disponibilità per ulteriori contributi, purtroppo dobbiamo fare i conti con le donazioni, che non sono consistenti”.
Un milione di nuovi sfollati in Sudan. In Sudan prima dell’attuale conflitto c’erano già 3,7 milioni di sfollati interni a causa di lotte politiche ed etniche e 1,1 milioni di rifugiati e richiedenti asilo. Dallo scorso 15 aprile 2023, secondo l’Ocha (Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari)
sono fuggite più di 940.000 persone sfollate, di cui più di 736.000 all’interno del Paese e quasi 205.000 nei Paesi vicini.
Almeno un migliaio i morti dal 15 aprile. Secondo il sindacato dei medici del Sudan sono 863 i civili morti e 3.531 le persone ferite.
Anche le strutture sanitarie di Medici senza frontiere (Msf) sono state saccheggiate almeno una decina di volte, con ripetuti attacchi . L’ultima in questi giorni, con il saccheggio di uno dei magazzini a Khartoum: i frigoriferi sono stati staccati e i farmaci sono stati gettati via. L’intera catena del freddo è andata in tilt: i medicinali non sono più utilizzabili per curare i pazienti. L’organizzazione medico-umanitaria condanna “le inaccettabili aggressioni contro il suo personale e i violenti saccheggi e le occupazioni armate delle sue strutture mediche o di quelle che supporta in Sudan”.
Per Volker Perthes, inviato speciale dell’Onu nel Paese africano, c’è il pericolo di una “crescente etnicizzazione” del conflitto, che “rischia di espandersi e di prolungarsi con implicazioni per la regione”. “In alcune parti del Paese, i combattimenti tra i due eserciti o le due formazioni hanno riacceso tensioni comunitarie o provocato conflitti tra comunità”, ha precisato Perthes, aggiungendo che “segnali preoccupanti di mobilitazione tribale sono stati segnalati in altre parti del Paese, in particolare nel Kordofan meridionale”. Ora la priorità dell’Onu è “evitare l’escalation o l’etnicizzazione del conflitto”. In particolare il Sud Sudan teme di non poter esportare il suo petrolio, che passa per l’oleodotto che arriva a Port Sudan sul Mar Rosso. Un’interruzione di questa infrastruttura avrebbe ripercussioni molto gravi. I team locali di risposta alle emergenze stanno lavorando con tutte le parti interessate e le controparti in Sudan per garantire la produzione di greggio in Sud Sudan.