Decimo giorno di terrore, bombe e morte in Sudan. Mentre i civili sudanesi attendono il rispetto di un “cessate il fuoco” asserragliati in casa, si allunga la lista dei Paesi che stanno evacuando i propri connazionali dalla capitale in fiamme.
Gli occidentali se ne vanno. Stati Uniti e Regno Unito hanno annunciato di avere già portato fuori dal Paese i loro diplomatici: le autorità americane hanno messo in salvo poco meno di 100 connazionali facendoli salire a bordo di tre elicotteri Chinook, come riferisce la Bbc. Francia, Germania, Italia e Spagna hanno in parte già evacuato molti funzionari propri e delle Nazioni Unite, cooperanti e altri connazionali che lavorano nel Paese africano, dal 15 aprile improvvisamente sotto le bombe dei due generali rivali. La Svizzera ha chiuso la propria ambasciata a Khartoum. Il primo ministro britannico Rishi Sunak ha definito con un tweet le evacuazioni “complesse ma rapide”.
Chi parte e chi rimane. La guerra in corso resta, secondo gli analisti, una “power struggle”, ossia una lotta per il potere tra due leader rivali: il popolo è fuori dagli schieramenti, intrappolato tra le bombe, ostaggio di una drammatica lotta per la conquista della supremazia e della leadership militare. L’evacuazione di massa degli “expat”, ossia tutti coloro che lavorano e vivono in Sudan (e non hanno avuto modo di anticipare lo scoppio del conflitto), sta avvenendo tramite le aviazioni militari dei diversi Paesi di provenienza, e prosegue anche in queste ore, sebbene il pericolo sia molto elevato. La Farnesina ha fatto sapere di essere impegnata nel mettere in salvo su aerei militari tutti quegli italiani che “hanno accettato” di lasciare il Sudan. Tra di loro c’è anche un missionario comboniano molto anziano, ma gli altri padri comboniani hanno deciso di non lasciare il Paese.
Una bomba sulla chiesa. Fonti vicine ai missionari fanno sapere che ieri una bomba ha colpito la chiesa parrocchiale del quartiere di Bhari, sempre nella capitale, dove sorge l’abitazione dei comboniani, e i missionari hanno deciso di abbandonare Khartoum, ma di non lasciare il Sudan. Questa circostanza drammatica “li ha convinti a trasferirsi in un’altra località del Paese”, ha detto la fonte di Popoli e Missione. Questo luogo di rifugio sembra per ora fuori dall’epicentro della guerra. Il conflitto a fuoco tra il generale Abdel Burhan, e i paramilitari delle Rapid Support Forces, guidati dal generale Degalo, detto Hemedti, ha già provocato centinaia di morti e migliaia di feriti tra i civili. Ogni cessate il fuoco è stato violato.
Popolazione allo stremo. Il problema maggiore adesso è per chi resta: impossibili gli approvvigionamenti di cibo e acqua per i sudanesi da nove giorni chiusi in casa, con temperature record che raggiungono anche i 40 gradi. Due giorni fa le immagini satellitari hanno mostrato il mercato di un campo profughi del Darfur andato in fiamme. Le cifre relative ai morti sono però discordanti: Margareth Harris, portavoce dell’Oms, organizzazione mondiale della sanità, ha dichiarato che le vittime sono 413, ma nei giorni scorsi si parlava già di oltre 600 morti. Per i civili sudanesi non è stato predisposto al momento alcun ponte aereo: a rischiare sono soprattutto coloro che abitano a Khartoum ma l’intero Paese è in guerra, poiché le regioni del Darfur e del Kordofan sono colpite dal fuoco incrociato. Il dramma più grande è per quanti vivono nei campi profughi del Darfur, già vulnerabili e senza protezione.
*redazione Popoli e Missione