Don Bruno, cappellano militare a Erbil: “Qui la Chiesa dimostra coi fatti che un futuro prospero e di convivenza è possibile”

"Voce Isontina" ha raggiunto telefonicamente don Bruno Mollicone, sacerdote incardinato nell'arcidiocesi di Gorizia ed attualmente in servizio presso l’Ordinariato militare come cappellano militare, che ora si trova in Iraq, ad Erbil, dove presta il servizio di assistenza spirituale nell’ambito dell’operazione Prima Parthica. Cosa significa essere un "sacerdote in mimetica" in una missione all’estero? Quali sono le peculiarità sociali ed ecclesiali del Paese?

(Foto Voce Isontina)

Abbiamo raggiunto telefonicamente don Bruno Mollicone, sacerdote incardinato nella nostra arcidiocesi di Gorizia ed attualmente in servizio presso l’Ordinariato militare come cappellano militare, che ora si trova in Iraq, ad Erbil, dove presta il servizio di assistenza spirituale nell’ambito dell’operazione Prima Parthica. Gli abbiamo chiesto cosa significhi essere un “sacerdote in mimetica” in una missione all’estero e quali siano le peculiarità sociali ed ecclesiali del Paese in cui si trova.

Cosa caratterizza in particolare il ministero del cappellano militare?
Il nostro è innanzitutto un ministero di “presenza”. Essere presenti sempre, condividere le tante e varie situazioni che la vita e la professione militare portano con sé. Gioire con chi gioisce e piangere con chi è nel pianto, mutuando un’espressione della Lettera ai Romani. Creare cioè un’empatia sincera con chi ci sta di fronte. E ascoltare, ascoltare tanto ancor prima di parlare. Mai giudicare, soprattutto se giudicare significa mettere una X su una persona. Perché nella vita prima o poi sbagliamo tutti ed è successo anche a me. Al tempo stesso, però, non dobbiamo venir meno al dovere di indicare sempre, con chiarezza e delicatezza, il vero, il buono e il bello. I militari, e fra questi anche molti non credenti, cercano tantissimo il cappellano e lo cercano soprattutto in alcuni momenti forti della vita. Sanno di potersi fidare. Cercano un prete che voglia ascoltarli e parlare con loro, un prete che accolga il loro vissuto con gentilezza, non con un indice puntato. E ben venga se quel prete indossa una mimetica come loro, ma non cercano un compagnone… cercano un prete. E talvolta accade che quel prete, dopo un po’, diventi anche un amico.

Il cappellano militare può operare in molteplici contesti e uno di questi è l’assistenza ai reparti operativi all’estero. Per te non è la prima volta. Da quanto tempo ti trovi in Iraq e com’è strutturata la missione italiana?
In Iraq ero già stato nel 2018. All’epoca mi trovavo a Baghdad, mentre ora, da alcuni mesi, sono nel nord del Paese, a Erbil, che è il capoluogo della regione autonoma del Kurdistan. In linea d’aria siamo a circa 150 chilometri dal confine iraniano e da quello turco. Si tratta di un’area estremamente importante sotto il profilo geopolitico e con una specifica identità linguistica, sociale e culturale. A livello militare l’Italia e le altre nazioni che sono presenti in Kurdistan, così come nel resto del Paese, cooperano con le autorità locali su vari aspetti legati alla sicurezza dello Stato. Nel 2014, infatti, a seguito della pericolosa e tragica espansione del cosiddetto Stato Islamico (Isis) e della richiesta di soccorso avanzata dall’Iraq, venne creata una coalizione multinazionale che è tuttora operante e comprende oltre 80 nazioni e 5 organizzazioni internazionali.

Il teatro operativo dove presti servizio è caratterizzato, come accennavi, da una forte presenza internazionale. Ci sono anche militari di altre confessioni cristiane o di altre religioni? E hanno i loro cappellani? C’è dialogo e collaborazione fra voi?
In Iraq c’è veramente un’interessante porzione di mondo. Pensa che ci sono anche i nostri vicini sloveni, seppur in numero molto piccolo. Fino a poche settimane fa ce n’era uno che veniva ogni domenica alla Messa italiana e con il quale siamo diventati veramente amici. Sono sensazioni che, probabilmente, solo noi italiani di confine possiamo capire: vedi un militare sloveno in Iraq, gli dici “Dober dan!” (buongiorno), lui ti guarda stupito, intuisce che probabilmente sei goriziano, triestino o comunque del confine… e praticamente due minuti dopo stai già parlando di “casa” davanti a un caffè in un misto di Italiano, Sloveno e Inglese. Bellissimo! Tra parentesi, anche l’attuale nunzio apostolico in Iraq, cioè l’ambasciatore del Papa, è uno sloveno: Mons. Mitja Leskovar. Per rispondere alla tua domanda sulle altre confessioni cristiane o religioni presenti fra i militari in Iraq ti confermo che la situazione è esattamente come l’hai descritta: c’è una grande pluralità, anche se in buona parte si rimane prevalentemente in ambito cristiano. Fra i cappellani si respira un forte spirito ecumenico e di collaborazione. Del resto, siamo tutti qui per lo stesso motivo: servire i nostri uomini e ricordar loro quanto sia importante guardare il Cielo.

(Foto Voce Isontina)

In Iraq vi è una comunità cattolica di antica tradizione: la Chiesa Caldea, la cui sede patriarcale è a Baghdad. Si tratta di una Chiesa che, negli ultimi decenni, è stata ferita dalla guerra. Come hanno affrontato questi eventi i cristiani iracheni?
Li hanno affrontati con fede. Diciamola tutta… Hanno affrontato con fede ciò che, negli anni dell’Isis, è stato a tutti gli effetti un martirio. Come sai, il significato della parola martirio, nell’originale greco, è testimonianza. I cristiani caldei, nel periodo dell’Isis, sono stati autentici martiri: martiri nella testimonianza coraggiosa della fede e martiri, in molti casi, anche nell’effusione del sangue. I cristiani d’Iraq, e non solo loro, oggi rappresentano un monito e un esempio soprattutto per l’Europa che, talvolta, pare voler recidere le sue radici spirituali.

Puoi farci qualche esempio di aiuti che la Chiesa Italiana sta portando o ha portato all’Iraq?
A tutti i livelli, che si tratti di singole diocesi, Caritas o associazioni, i cattolici italiani hanno un cuore grande. Potrei citarti davvero tanti esempi. Ma lasciami dire che il tratto distintivo di questi aiuti è che essi sono generalmente rivolti a tutti, cristiani e non cristiani. La Chiesa vuole dimostrare coi fatti che un futuro prospero e di convivenza può esserci davvero. Se ad esempio arrivano aiuti per una scuola materna gestita dalle suore, questa sarà ovviamente una scuola cattolica, ma stai sicuro che quella stessa scuola, pur senza rinunciare a nulla della propria identità cattolica, accoglierà tranquillamente anche bambini non cattolici. Questo, qui a Erbil, l’ho visto coi miei occhi. Anche recentemente ho visitato un asilo cristiano dove sapevo che c’era una percentuale di bambini musulmani, iscritti serenamente dalle loro famiglie. Io vedevo semplicemente bambini giocare e ridere assieme. Un giorno quei bambini cresceranno e si ricorderanno di quanto belli siano stati quei momenti, di quanto siano stati bene tutti assieme. E vorranno ricreare quell’armonia anche nella società irachena di domani. Questo è l’orizzonte che già oggi si intravede. I nostri militari sono qui per aiutare le autorità locali a proteggere quell’orizzonte dalle tenebre del fondamentalismo.

In Afghanistan, dopo 20 anni di presenza militare occidentale, già poco tempo dopo il ritorno del governo talebano, è stato cancellato molto di quel lungo lavoro che era costato tanto sacrificio, anche in termini di vite umane. Come vedi l’Iraq fra 10 anni?
Ciò che sta succedendo in Afghanistan provoca a tutti noi un’immensa amarezza, ma la situazione dell’Iraq non è paragonabile a quella di Kabul. Non credo che questa nazione potrà mai avere un destino di quel tipo. Alla domanda su come vedo l’Iraq fra 10 anni è difficile rispondere in modo preciso, perché purtroppo dobbiamo sempre ricordarci che siamo in Medio Oriente e da queste parti i sogni e i progetti devono spesso fare i conti con l’imprevedibilità degli eventi. Se l’Iraq riuscirà a ritrovare pienamente la stabilità e la concordia garantirà ai suoi figli di non dover cercare altrove la felicità. Come disse il Santo Padre proprio a Ur due anni fa “non ci sarà pace finché gli altri saranno un loro e non un noi”.

(*) pubblicato su “Voce Isontina” (Gorizia)

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