(Madaba) “Non rifugiati, ma ospiti”: sintetizza così Wael Suleiman, direttore generale di Caritas Giordania, lo spirito con cui il Regno Hashemita accoglie i rifugiati iracheni e siriani, in fuga da guerre, instabilità politica e crisi economiche. Una generosità e un’apertura che vengono da lontano, quando i primi a bussare alle porte giordane furono i palestinesi, subito dopo le guerre arabo-israeliane del 1948 e del 1967. Si stima che gli arabi palestinesi in Giordania siano attualmente oltre tre milioni, in gran parte naturalizzati giordani.
Le porte si sono riaperte nel 2014, questa volta per gli iracheni, dopo l’invasione dello Stato islamico: ne sono arrivati circa 90mila (stime Onu), di questi 11mila sono di fede cristiana. Poi è stata la volta dei siriani, un esodo inarrestabile provocato dalla guerra scoppiata nel 2011, che ha portato a casa del re Abdullah II circa 1,3 milioni di rifugiati. Di questi, 700 mila sono registrati come richiedenti asilo presso l’Unhcr. Nel Paese vivono anche diverse migliaia di lavoratori stranieri di 43 Paesi diversi. Numeri che fanno della Giordania il secondo Paese al mondo per presenza di rifugiati rispetto alla popolazione ospitante.
Cultura dell’accoglienza. Ad ascoltare Suleiman sono stati ieri, nei locali della chiesa melkita di Madaba, i vescovi dell’Holy Land Coordination in questi giorni in Giordania per la loro annuale visita di solidarietà alle comunità cristiane della Terra Santa. “La nostra cultura – ha spiegato il direttore della Caritas giordana – ci insegna che l’ospite resta con noi fino a quando non raggiunge la sua destinazione finale. E a lui deve essere donato tutto il necessario per una vita dignitosa”.
“L’ospite è un dono”.
Grazie a un network composto da 25 centri sparsi in 9 Governatorati, con 400 membri dello staff sostenuti da 3mila volontari, Caritas Giordania è in prima linea nel fornire a tutti i rifugiati e persone vulnerabili accesso alle cure sanitarie, inserimento scolastico, formazione lavoro, alloggi, cibo e acqua. Un impegno reso possibile grazie anche all’aiuto di Chiese e di Paesi stranieri come l’Italia, la Francia, gli Usa, la Germania, la Spagna e molti altri.
Pensare al futuro. “Purtroppo non basta dare aiuto, ora è il tempo di pensare al futuro di queste persone. Per noi – ha affermato Suleiman – il loro futuro è legato principalmente ai luoghi dove sono nati, cresciuti, dove hanno gli affetti”.
“Il loro futuro è la terra da cui provengono. Bisogna, quindi, lavorare in questa direzione, l’unica che può ridare loro quella dignità persa a causa di guerre, violenza settaria e crisi economiche e sociali”.
La speranza di un ritorno dei rifugiati nei loro Paesi di origine si infrange, tuttavia, contro la realtà: “Pochi vogliono fare ritorno in Patria: gli iracheni non vedono il loro Paese stabile e sicuro, non c’è lavoro, e inoltre le loro abitazioni nella Piana di Ninive e a Mosul, non sono state ricostruite. Qui – ha dichiarato il direttore di Caritas Giordania – gli iracheni cristiani si sentono protetti e si sono integrati nella società. Circa 100 famiglie in questi anni sono partite per l’Italia grazie a dei corridoi umanitari promossi dalla Cei. Sono state accolte in diverse diocesi e oggi sono felici. Riprenderemo i corridoi umanitari in aprile, questa volta per circa 200 persone tra iracheni e siriani”. Questi ultimi, ha sottolineato Suleiman, “non hanno nessuna intenzione di tornare nel loro Paese dove oramai non possiedono più nulla. Le loro case e proprietà sono state distrutte. Il paese attualmente è in preda ad una profonda povertà, difficile tornare in queste condizioni. Ci sono poi i siriani fuggiti perché oppositori politici del presidente Assad. Per loro tornare significherebbe rischiare la vita”.
Rischio tensioni sociali. Per quanto la cultura araba insegni l’ospitalità e l’accoglienza non mancano nel Regno Hashemita tensioni tra la popolazione giordana e i rifugiati. Tensioni che si sono acuite con la pandemia. Il blocco imposto dal Coronavirus ha provocato una contrazione dell’economia locale con conseguente crescita della disoccupazione salita a quasi il 23%, al 50% quella giovanile. Il rischio di una ‘guerra tra poveri’ non è remoto. La risposta della Caritas è sempre la stessa: aiutare tutti senza distinzioni. Sono in rampa di lancio tre progetti per creare lavoro, destinati ai rifugiati e ai più vulnerabili giordani, che saranno presto inoltrati alla Conferenza episcopale italiana e all’arcidiocesi di Bologna, retta dal card. Matteo Zuppi, che della Cei è anche presidente. Prosegue, inoltre, tutta una serie di iniziative volte a formare ed istruire rifugiati iracheni e non nel campo agricolo, in quello della falegnameria, del packaging, e del mosaico. A riguardo i vescovi dell’Holy Land Coordination hanno visitato il laboratorio denominato “Il Giardino del Mosaico”, situato proprio nella parrocchia melkita di Madaba, città dalla grande tradizione di mosaici e famosa per la “Mappa di Madaba”, un mosaico pavimentale, sito nella chiesa bizantina di San Giorgio, raffigurante la Terra Santa e Gerusalemme.
Il Coordinamento di Terra Santa (Hlc), attivo dal 1998 e composto da vescovi di tutta Europa, Nord America e Sud Africa, è stato istituito su invito della Santa Sede con lo scopo di visitare e sostenere le comunità cristiane locali della Terra Santa. Il compito principale del Coordinamento risiede nelle cosiddette quattro ‘P’: “Preghiera, pellegrinaggio, pressione e presenza”.