Faggioli: “Come sessant’anni fa Il Papa è la voce più influente”

Tra analogie e differenze, indagare il periodo storico in cui si è aperto il Concilio può diventare una bussola anche per orientarsi nel presente. Il settimanale "La voce dei Berici" ne ha parlato con Massimo Faggioli, storico della Chiesa e docente alla Villanova University in Pennsylvania, Usa che spiega: "Oggi il magistero si trova in un empasse: è impossibile pensare alla 'guerra giusta' quando sono in ballo armi nucleari"

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Tra analogie e differenze, indagare il periodo storico in cui si è aperto il Concilio può diventare una bussola anche per orientarsi nel presente. Ne abbiamo parlato con Massimo Faggioli, storico della Chiesa e docente alla Villanova University in Pennsylvania, Usa.

Professor Faggioli, partiamo dalle differenze: quali sono quelle tra oggi e sessant’anni fa, quando si è aperto il Concilio Vaticano II?
Sono molte. La prima: sessant’anni fa si pensava di avere imparato la lezione della Seconda Guerra Mondiale e c’era una fiducia nella capacità del genere umano di non ricorrere alla guerra che oggi non c’è. Le organizzazioni internazionali godevano di maggior prestigio e, tutto sommato, era un mondo “semplice” che vedeva contrapporsi due modelli economici: quello liberale e quello comunista. Infine, la Chiesa cattolica appariva più compatta in pubblico su questi temi di quanto non lo sia oggi sulla Russia.

E le analogie?
Una, soprattutto: il papato continua ad essere la voce più influente dal punto di vista spirituale. Questa cosa non è cambiata anzi, è ancora più evidente.

Tuttavia, la voce del Papa sembra avere difficoltà a farsi ascoltare. Perché?
Nel 1962 c’era un Concilio e un magistero di Papa Giovanni XXIII che con “Pacem in terris” pensava a come risolvere la questione della legittimità della guerra in era nucleare. Oggi il magistero si trova in un empasse: è impossibile pensare alla “guerra giusta” quando sono in ballo armi nucleari. C’è un dilemma da affrontare: fino a che punto affermare il diritto all’autodifesa quando questo ci porta vicini a una guerra nucleare.

Qualcuno ha ricordato il rischio guerra atomica toccato con la crisi dei missili di Cuba. Eppure Kennedy e Kruscev erano più disposti a dialogare di Zelensky e Putin. È d’accordo?
All’epoca l’azione dell’Unione sovietica era all’interno di uno schema bipolare, ma non attentava alla sovranità di uno Stato. Questa guerra ha caratteristiche coloniali, più da seconda guerra mondiale che da guerra fredda.

Lei vive e lavora negli Stati Uniti. Qual è la narrazione prevalente sul conflitto in Ucraina?
Non c’è più di tanto una narrazione. Tra poco si terranno le elezioni di mid-term e la questione Ucraina sta sullo sfondo. Negli Usa sono tutti molto stanchi di parlare di guerra, lo fanno ininterrottamente da vent’anni, dall’11 settembre e dall’invasione in Afghanistan. C’è riluttanza anche a sinistra nel vedere la guerra come episodio importante per i destini dell’Occidente. È una faccenda seguita molto da vicino dagli ambienti militari e diplomatici. Anche se gli Usa sono molto impegnati, è materia di élite.

(Precedentemente pubblicato su “La Voce dei Berici”)

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