Lavorano senza sosta, i Caronte di Necoclí, nel nordovest della Colombia. A tutte le ore, con barche regolari e irregolari, decine e decine di venezuelani, oltre a persone di altre nazionalità (soprattutto haitiani e cubani) si imbarcano, paradossalmente pieni di speranza, verso l’inferno. In altro mondo non si può definire il cosiddetto “Tapón del Darién”, il sottile istmo che separa la Colombia da Panama, l’America del Sud dall’America centrale. L’attraversata attraverso il mar dei Caraibi è, per certi aspetti, provvidenziale. Sessanta chilometri via mare, tra Necoclí, noto per essere il paese natale del calciatore Juan Cuadrado, e Capurganá, nel dipartimento di Antioquia, sono, infatti, preferibili rispetto a una più lunga marcia attraverso territori isolati e spesso controllati da bande armate. Il problema, però, è che rotta migratoria prosegue, poi, verso il confine panamense, proprio attraverso il “Tapón del Darién”, con l’obiettivo di attraversare il serpentone del Centroamerica di raggiungere il Messico, e poi gli Stati Uniti. Il tratto verso il confine con Panama è quanto di più inospitale di possa pensare: foresta fitta, zone montane, presenza costante di belve feroci, pericolosi insetti, guerriglieri, contrabbandieri, bande criminali di tutti i tipi. Ma i “Caronte” non hanno giorni di ferie.
Esodo senza fine e sempre più rischioso. Lo scorso anno, Necoclí aveva conosciuto l’emergenza degli haitiani, ma quest’anno la rotta è stata “scoperta” dai venezuelani, che continuano a fuggire, senza soldi e prospettive, dal loro Paese. Per certi aspetti, la tradizionale rotta “andina”, dalla Colombia verso Ecuador, Perù e Cile, è satura. E il sogno a stelle e strisce è un potente magnete. Così, il “tappo”, il Tapón appunto, è saltato, e sono già circa centomila i venezuelani che si trovano a Panama, oltre a quelli che già stanno risalendo il Continente. In un bilancio offerto dal ministero della Sicurezza di Panama, è stato rivelato che da gennaio a settembre 151.527 migranti hanno attraversato la frontiera che divide la Colombia da Panama. Di questi, 107mila 723 sono venezuelani (71%). Con questa cifra il venezuelano diventa di gran lunga la nazionalità con il maggior numero di migranti lungo la rotta. Seguono Haiti (8.579), Cuba (4.322) e altri Paesi (14.297). Del, resto, secondo le stime dell’Unhcr, l’agenzia dell’Onu per i migranti, le cifre dell’esodo venezuelano sono in continua crescita e sono stati superati i sei milioni di persone fuggite dalla loro patria negli ultimi anni.
La diocesi fa il possibile. Mons. Hugo Alberto Torres Marín, il vescovo di Apartadó, è in prima linea in questa e nelle altre emergenze umanitarie della sua diocesi, una delle più violente della Colombia, così come quelle confinanti, che vanno verso il Pacifico. Quando lo intervistiamo, è reduce da una domenica trascorsa sulla spiaggia, nel tentativo di creare comunità e di promuovere un’accoglienza davvero degna, attraverso una “merenda solidale”, cui anch’egli ha preso parte. “Ma la nostra capacità umana oltrepassa le necessità di ogni giorno – confida al Sir il vescovo -. Non siamo di fronte a un semplice flusso, sia pur, grande, ma in molti casi a una vera e propria tratta di persone. Lo scorso anni passavano di qua haitiani, cubani, perfino africani. Ma ora, con l’arrivo dei venezuelani, il fenomeno ha raggiunto proporzioni mai viste. Arrivano in una condizione indicibile, donne, bambini, anziani. Sono senza soldi, dormono in spiaggia”. In qualche modo, la maggior parte di loro, riesce a mettere da parte il necessario per l’attraversamento via mare (l’attraversamento su barche regolari costa circa 35 euro), altri proseguono via terra. Tutti rischiano di essere alla mercé di trafficanti senza scrupoli (almeno tre le organizzazioni attive per il traffico illecito di persone umane), “nonostante il lavoro, sia nella località costiera che nei pressi della frontiera, delle autorità, della diocesi stessa, dell’Unhcr e di alcune Ong”.
La diocesi di Apartadó, continua mons. Torres, è attiva in quattro modi: “Abbiamo un centro di prima accoglienza, e informazione, cerchiamo di dare ai migranti le maggiori informazioni possibili, cerchiamo di farli desistere rispetto al loro proposito; un progetto di accompagnamento psico-sociale in collaborazione con l’agenzia Unhcr, un centro di distribuzione di piatti caldi, oltre che si vestiti e medicinali, grazie al sostegno di religiose e laici; un progetto specifico rivolto ai minori. Ma servirebbe una maggiore politica sociale da parte delle autorità pubbliche”.
La foresta è un camposanto. Tra le persone che operano senza sosta sulla spiaggia di Necoclí c’è suor Myriam Lucy Murcia García, della congregazione delle Sorelle di San Giovanni evangelista: “La spiaggia è una distesa di coperte, costantemente. L’aumento dei migranti è coinciso con l’apertura della frontiera, avvenuta lo scorso dicembre. L’attenuarsi della pandemia ha fatto riprendere gli spostamenti. È vero, i venezuelani sono la nostra principale preoccupazione, hanno bisogno di tutto, soprattutto di alimenti e medicinali. Cerchiamo di lavorare in rete, anche attraverso delle chat. E facciamo il possibile per evitare che i migranti finiscano nelle mani delle organizzazioni criminali e restino vittime di tratta”.
Purtroppo, però, la selva del Darién “è ormai un camposanto. Molte persone non escono da quella foresta, così pericolosa, con qualunque tipo di rischi”. Negli ultimi mesi, sono diciassette i morti accertati, almeno 79 le persone scomparse. Alla crisi umanitaria, si aggiunge l’effetto collaterale degli effetti socio-ambientali: “Il passaggio dei migranti pota con sé anche un gran numero di rifiuti, di plastica”. In ogni caso, “restare vivi è un miracolo, ma i migranti tengono come reliquie i brevi video dei conoscenti che, tra i pochissimi fortunati, inviano messaggi dal Canada o dal Messico”.
*giornalista de “La vita del popolo”