“Avevamo le mani alzate, armati solo di voce, per chiedere più diritti, più democrazia, più libertà, riforme. Nella piazza dell’orologio, della mia città, Daraa, (nel Sud- ovest della Siria, ndr.), in migliaia, senza nessuna distinzione sociale, etnica e religiosa, avevamo dato vita forse alla più grande protesta della storia recente del nostro Paese. Pensavamo davvero che fosse giunto il momento di cambiare la nostra vita, costretta a subire una dittatura terribile, e invece siamo stati attaccati con le armi dalle Forze del Regime”. Quella che poteva diventare il simbolo della primavera araba siriana, in pochi giorni è diventata una delle città martiri della guerra in Siria che si combatte dalla metà di Marzo del 2011. “Da allora, a Daraa, nulla è tornato come prima”. È il racconto, “amaro”, del sogno spezzato di Amjad (nome di fantasia per motivi di sicurezza), all’epoca poco più che 30enne, tra i primi a scendere in piazza a Daraa per manifestare per la libertà. Un sogno inseguito ancora oggi a distanza di anni nonostante sia stato costretto a scappare via dal suo Paese, braccato dal regime.
La storia. “Con un gruppo di amici andavamo in strada a protestare, seguiti da tanta gente. Ricordo – dice in un buon italiano – che quando il regime ordinò di sparare sulla folla molti soldati si rifiutarono e per questo motivo abbandonarono l’esercito per costituire il cosiddetto Esercito Siriano Libero. Loro intenzione, ci dicevano, era quella di difendere il popolo e non di ucciderlo. Non passò tanto tempo che cominciarono a circolare armi anche tra i manifestanti. In quel momento abbiamo capito che altri Paesi e milizie radicaliste islamiche affiliate, come Jabat al Nusra, si stavano impossessando della nostra protesta pacifica per far piombare la Siria nell’abisso della guerra. La Siria è diventata un campo di battaglia per una guerra di procura combattuta dal regime e i suoi alleati Russia e Iran, contro i ribelli finanziati dalla Turchia e da diversi Paesi arabi”. Ingerenze straniere che hanno provocato tra il 2013 e il 2014 l’arrivo dell’Isis. “Se Assad avesse ascoltato la voce del popolo forse oggi racconteremmo una storia diversa. Così non è stato e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Oggi la Siria è allo stremo, povera, divisa e preda degli interessi di altri Paesi come Russia, Usa e Turchia che se la stanno spartendo”. Dopo 11 anni di guerra i numeri sono impietosi: dei 22 milioni di siriani che vivevano nel Paese, più della metà sono sfollati interni e profughi che vivono tra Libano, Giordania e Turchia. E proprio dalla Turchia provenivano i sei migranti siriani trovati morti per la fame e la sete su una barca arrivata a Pozzallo nelle settimane scorse. Risale al 22 settembre, invece, al largo delle coste siriane, un altro naufragio di una imbarcazione partita verso l’Europa dal porto di Miniyeh, vicino a Tripoli, in Libano, con a bordo tra i 120 e i 170 migranti e rifugiati, per lo più siriani, libanesi e palestinesi. Almeno 80 vittime, tra loro donne e bambini. Ennesime pagine tragiche di una guerra ignorata, come ignorato è rimasto il grido di aiuto di quei migranti in balia delle onde.
L’arrivo in Italia. Di quel gruppo di amici oggi resta solo Amjad: “gli altri purtroppo non ci sono più. Uno è stato imprigionato e torturato a morte” ricorda commosso. Anche per questo che, poco prima della fine del 2011 (11 novembre), convinto dal padre, Amjad fugge dalla Siria, dove non fa più ritorno. “Sono considerato un oppositore del regime e se dovessi tornare per me sarebbe morte certa” dice senza mezzi termini. Dopo un’odissea che lo ha portato a cercare lavoro in vari Paesi europei Amjad è arrivato in Italia dove è riuscito ad ottenere lo status di rifugiato politico. Risale solo alla metà di agosto scorso il ricongiungimento familiare con la moglie e suoi 5 figli, (di 3, 7, 11, 17 e 20 anni) che intanto avevano trovato rifugio in Giordania. Nell’aeroporto di Bologna, dopo varie traversie burocratiche, il primo abbraccio con la figlia più piccola che non aveva mai visto dalla nascita, ma solo, dice ridendo, “in video chiamata”. “Il resto dei miei familiari, ho anche un fratello e una sorella, è rimasto a Daraa, mio padre è stato due volte imprigionato dal regime come ritorsione, e per uscire ha dovuto pagare i suoi aguzzini. E lo stesso è accaduto a uno dei miei fratelli. Le cose sembrano adesso andare un po’ meglio anche perché il regime di Assad pare essersi indebolito, ostaggio com’è della Russia”. “Ero partito molto prima della guerra per andare a lavorare a Dubai. Poi dopo diversi anni sono rientrato, era il 2009 – ricorda Amjad -. Desideravo vivere nel mio Paese, rinnovarlo ma ce lo hanno impedito con le armi”. Amjad parla anche di un’altra guerra che la popolazione siriana combatte quotidianamente, quella contro la povertà: “i mei familiari mi dicono che in Siria hanno luce e acqua solo per poche ore al giorno, manca il lavoro, manca il cibo, non ci sono cure sanitarie disponibili. Le sanzioni internazionali colpiscono la povera gente, non chi governa”.
Un nuovo inizio. Amjad dal 2017 si è stabilito in un centro dell’entroterra del Lazio dove dal 14 agosto lo ha raggiunto la sua famiglia. Qui, con la sua affabilità e i suoi modi gentili, si è conquistato degli amici che lo stanno aiutando in tutto, anche ad arredare la casa, perché “ora che siamo diventati sette è più difficile”, sottolinea sorridendo il rifugiato siriano. Una solidarietà silenziosa e discreta dal sapore forte dell’inclusione e dell’integrazione. Sono giorni importanti questi per Amjad: “per prima cosa devo far tradurre i documenti dei miei figli per regolarizzare la loro iscrizione a scuola e all’università”. “Sono felice del mio lavoro di operaio edile” aggiunge senza nascondere il suo sogno nel cassetto: “lavorare come mosaicista. A Bologna ho seguito corsi per realizzare mosaici” afferma mostrando con orgoglio la foto di una sua opera che ritrae il sole e la luna insieme, realizzata con tante piccole pietre colorate. “Un mosaico bellissimo – conclude – come lo era la mia Siria prima della guerra dove tutti vivevano in pace e in concordia e con la stessa fame di libertà”. Un mosaico di vite che Amjad spera di vedere, un giorno, ricomposto.