“Il Kenya ha 42 lingue e in molte ‘povero’ e ‘solo’ si dice con la stessa parola: se uno rimane solo, diventa anche povero, non solo economicamente, ma anche di idee, forza, coraggio, con una povertà che si sovrappone a quella materiale”. Il non essere solo è stata la ricchezza di Gianfranco Morino, chirurgo classe 1958, originario di Acqui Terme: arrivato in Africa nel 1986 con il servizio civile, è poi tornato nel 1991 con la moglie. Nel 1992 è nato il primo dei loro quattro figli. Insieme a un gruppo di persone che condividevano l’amore per l’Africa, la sete di giustizia e la preoccupazione per la salute, nel 2001 ha dato vita all’associazione World friends, ong che si muove secondo il principio “tutti gli esseri umani hanno diritto a vivere una vita dignitosa e in piena salute, ricevere un’educazione appropriata, trovare un lavoro e avere una casa per sé e la propria famiglia”. World friends, nelle grandi periferie del mondo, dove le povertà di tutti i tipi hanno casa, cerca di ricostruire giustizia partendo dalla salute, “chiave dello sviluppo”. Così nel 2008 a Nairobi è nato il Ruaraka Uhai Neema Hospital, centro medico in cui si vive un “modello di sanità al servizio del paziente, dove la salute è un diritto e non un business”, racconta al Sir Morino, che ha fondato l’ospedale dove oggi lavorano 220 persone, per il 99% kenioti, e si curano circa 130 mila persone all’anno. Morino dal 10 giugno sta facendo un tour in diverse città italiane per presentare un libro “La forza di Ippocrate. Storie al tempo della pandemia” e raccontare i tratti della povertà nel tempo del Covid.
Come si percepisce il mondo, stando sull’equatore?
Negli ultimi 50 anni sono stati costruiti 65 muri, più che dalle conquiste dell’America alla caduta del muro di Berlino. Per costruire quei muri si è creato il nemico. E vediamo che i muri sono sempre più selettivi perché per alcuni l’accesso e l’accoglienza sono dovute sulla base di precise caratteristiche, mentre altri non la ricevono. E siamo concentrati su una guerra, mentre ci siamo dimenticati di altre guerre, come quella della Siria, o dell’Etiopia, dove stupri di massa, vengono utilizzati come arma di guerra. Sono guerre di cui nessuno parla più, scomparse dalla grande editoria (con pochissime eccezioni). Abbiamo però anche visto che i muri sono diventati inutili, quando il nemico vero è arrivato, il virus Sars-Cov2, che ha superato ogni barriera. E prima ancora che finisse la pandemia, è scoppiata un’altra guerra. In passato c’era un senso civile maggiore e c’era sempre la moratoria sui conflitti durante le grandi pandemie, dalla peste di Atene in poi. Noi non abbiamo neanche questo oggi.
Che significa vivere e fare il medico a Nairobi?
Nairobi è la terza o quarta megalopoli al mondo per disuguaglianze sociali, è la megalopoli di un’apartheid subdola, fatta di gironi, basati sul reddito. Il 65% della popolazione di Nairobi vive in baraccopoli o in zone contigue agli slums, ma questa è una situazione sovrapponibile per tutte le grandi megalopoli del sud del mondo. Lì prevale una medicina privata, a pagamento, che esclude una gran parte della popolazione. Il paradosso è che il livello di salute è direttamente proporzionale alla ricchezza della persona e chi è più in salute, è chi può permettersi le cure. Ed è noto quanto i determinanti sociali influiscono sulla salute: alimentazione sana, acqua corrente, lavoro, abitazione. Influisce anche l’approccio politico ai diritti e ai doveri civili. Il principale fattore di rischio per la salute è la povertà nell’ingiustizia sociale. Martin Luther King lo diceva già nel 1966: “Di tutte le forme di disuguaglianza, l’ingiustizia nell’assistenza sanitaria è la più scioccante e disumana”.
Quali attività svolge World friends in Kenya?
L’impegno più consistente è certo il nostro ospedale, il Ruaraka Uhai Neema Hospital, centro medico sul confine degli slums, in cui si vive un modello di sanità al servizio del paziente, dove la salute è un diritto e non un business, dove il medico cerca di essere un custode civile, e si vive il prendersi cura come convergenza di scienza e compassione, impegno e solidarietà. Ci lavorano 220 persone, per il 99% kenioti, si curano circa 130 mila persone all’anno; dal 2010 è riconosciuto dal Governo come centro di formazione di personale locale e paramedico. Poi abbiamo diversi programmi, come quello nutrizionale per mamme con i bimbi denutriti, un programma di ecografia mobile, con ostetriche che girano sul territorio, abbiamo anche una “mobile clinic”, un’auto medica attrezzata che gira tra le popolazioni nomadi nella regione Masai e garantisce un sistema diagnostico rapidissimo. Abbiamo avviato un progetto per i bambini disabili e alcuni progetti sportivi per i ragazzi di strada. Riusciamo a raggiungere 200 mila persone all’anno: siamo una goccia nell’oceano di difficoltà e problemi. Ma un risultato importante è che sono nati team locali ben preparati di medici, infermieri, fisioterapisti, educatori sul territorio.
Che cosa è stata la pandemia per l’Africa?
Ci si aspettava uno tsunami e invece sicuramente l’impatto clinico è stato minore. È una popolazione giovane (in Kenya più del 50% ha meno di 15 anni) e che vive all’aperto e in fondo la salute pubblica, sul territorio, ha funzionato. Impossibili da attuare le indicazioni di prevenzione: senza acqua corrente, con il sapone che rappresenta l’alternativa a un pasto, mascherine che costavano 4 dollari, quando la gran parte della popolazione vive con un dollaro al giorno. A essere distruttivo è stato l’impatto sociale del Covid perché il Kenya ha adottato una politica di lock-down estremamente repressiva: chiusa la città metropolitana per mesi, con coprifuoco dalle 19 alle 5, posti di blocco e violenze continue, soprattutto verso i poveri (solo chi ha la macchina può tornare in tempo a casa dopo il lavoro). All’inizio ci sono stati più morti da posti di blocco che da Covid. Tanti hanno perso il lavoro (e non ci sono ammortizzatori sociali), è esplosa la malnutrizione, la violenza domestica. La chiusura delle scuole che ha portato a un danno enorme, con ragazzi sulla strada, aumento della criminalità, aumento della prostituzione da sopravvivenza per le ragazzine. Nella zona del Machakos, a sud ovest di Nairobi sono state registrate 4 mila gravidanze in età adolescenziale, chiaramente non volute. E saranno ragazze che non torneranno mai più a scuola. Avevamo aumentato la curva della presenza scolastica garantendo un pasto a scuola: con la chiusura, le famiglie si sono ritrovate un peso familiare in più, per cui le bambine sono state date in matrimoni precoci, il che spesso significa sottoporle a quell’ atto di violenza e oppressione che è la mutilazione genitale precoce. Ora si è usciti da quella fase ma si pagano ancora le conseguenze, con tanta malnutrizione.
E alle porte si profila la crisi del grano?
La crisi c’è già ed è drammatica perché non piove da un anno e la terra sembra sabbia. Anche noi, che solitamente non lo facciamo per evitare assistenzialismo, abbiamo iniziato a fare qualche distribuzione di pacchi alimentari in alcuni villaggi.
Il diritto alla salute: quanto siamo indietro nel garantirlo a tutti?
Ippocrate di Kos, ne V secolo a.C. scriveva: “In ogni luogo dove l’arte della medicina è amata, c’è anche amore per l’umanità”.Si era iniziato bene, 2500 anni fa, ma siamo arrivati a una situazione in cui nella stragrande maggioranza dei Paesi la salute non è un diritto, ma un privilegio. Anche in Italia: sembrava avessimo capito qual è il valore del Servizio sanitario nazionale fondato nel 1978; invece nel 1992 si è cominciato a distruggerlo, con la creazione delle Aziende regionali, sistema basato su profitto e fatturato, cioè qualcosa di totalmente diverso da quello che è un concetto della medicina come scienza a servizio dell’uomo.