L’Egitto è sull’orlo del baratro, ma al popolo si propinano palliativi spettacolari che tengono a freno il malcontento, come la propaganda politica in formato fiction. Lo dimostra il successo della serie Tv “Al Ikhtiyar3” che ha spopolato durante il periodo del Ramadan e che ancora adesso lascia impressa nella memoria l’immagine di un Al Sisi eroico e vincente. Ma come stanno davvero le cose?
Senza grano, fame e debito. L’attuale panorama economico egiziano è deprimente: il Paese è indebolito da anni di contrazione del Pil e dall’attuale minaccia che viene da Est e da Ovest. Dagli effetti nefasti della guerra russo-ucraina da un lato, e dalla decisione della Federal Reserve di aumentare i tassi di interesse. Il blocco dell’export del grano ucraino verso il Nordafrica colpisce anzitutto l’Egitto: che dipende per l’85% di questo bene da Russia e Ucraina. Il pane è un alimento di base imprescindibile un po’ in tutto il Nordafrica, ma inizia a scarseggiare. L’Egitto spendeva una media di tre miliardi di dollari l’anno per l’import di grano prima della guerra russo-ucraina; l’aumento dei prezzi potrebbe far alzare questa cifra a 5,7 miliardi di dollari l’anno, come prevede l’International Food Policy Research Institute. Facendo lievitare oltre misura il livello di debito pubblico già insostenibile. Il rischio (che si fa quasi certezza) è che mentre Al Sisi proietta su di sé, e sul Paese, un’immagine potente e invincibile della sua ascesa, sul terreno si cominci a registrare un’insoddisfazione tale da portare a nuove rivolte.
Un regime simile a quello di Mubarak. “È la prima volta che un presidente ancora in vita accetta di essere rappresentato da un attore su un piccolo schermo”, spiega Motasem A Dalloul. La distrazione di massa rappresentata dalla serie tv del Ramadan (Al Ikhtiyar3) che ipnotizza e confonde, serve a proprio a tenere lontana la protesta. Così come altri stratagemmi messi in atto dalla dittatura militare più pericolosa e meno stigmatizzata (dall’Occidente) della storia egiziana.
Al Ikhtiyar è un’arma di propaganda di massa potentissima perché parla alla pancia della gente.
E allo stesso tempo è un revisionismo storico pericoloso perché gioca col fuoco di quanti soffrono una dittatura paragonabile a quella di Mubarak. Questo affermano i suoi detrattori (per lo più intellettuali, giornalisti, attori, ex politici egiziani in esilio). Il popolo egiziano meno istruito e più facilmente permeabile alla propaganda, comincia a credere più alla finzione che alla realtà. Ma il resto di giovani e meno giovani che hanno resistito in piazza contro il regime di Mubarak nel 2011, freme. Il sacrificio della rivoluzione che diede il “la” alla Primavera araba sta lentamente finendo nel dimenticatoio.
Esiste un modello diverso di democrazia? Una strategia politica di successo (e di certo geniale) che se non fosse drammatica per chi ancora crede nella libertà, sarebbe quasi esilarante. La democrazia per la quale quel popolo aveva combattuto durante la rivoluzione del 2011, obbligando Mubarak alla fuga, è oramai un lumicino lontano. Menat Bahnasy, ricercatrice egiziana e autrice dell’Harvard Political Review, sul tema della democrazia in Egitto ha costruito la sua tesi di dottorato. E spiega che la democrazia che si è voluta sostenere in Egitto, anche tramite la rimozione dei Fratelli Musulmani, non è altro che un paradigma imposto dall’imperialismo occidentale. “Le proteste (sfociate nella rivoluzione di piazza Taharir al Cairo, ndr.), iniziarono il 25 gennaio del 2011: per 18 giorni di seguito numerosi segmenti della società egiziana spinsero per un rovescio di regime, cantando al-shaab yurid isqat al-nizam, ‘il popolo vuole deporre il regime’”. E di fatto questo avvenne, e piazza Taharir ebbe la meglio. Ma poi, furono proprio i Fratelli Musulmani ad essere eletti. E quest’esercizio della democrazia non piacque più all’Occidente, spiega Bahnasy. Che preferì un dittatore come Al Sisi, più facilmente controllabile e più sicuro in termini di deriva islamista, alla leadership di un musulmano moderato come era Mohammed Morsi. Eppure non esiste un unico paradigma democratico, scrive la ricercatrice. “Paesi a maggioranza musulmana come l’Egitto – dice ancora Menat Bahnasy – scommettono tutto sulla propria capacità di conciliare Islam e democrazia”. Ma tale scommessa, che andrebbe supportata e accompagnata, non solo non viene capita, viene pure calpestata e miseramente offesa. L’esempio egiziano, ma anche quello tunisino, parlano di questo schiaffo occidentale ai tentativi di costruzione di un modello “altro” di democrazia araba.
(*) redazione Popoli e Missione