Spesso gli auspici della “transizione verde” non danno conto del prezzo di sofferenza pagato per l’estrazione di “terre rare” e altri “metalli critici” (nichel, rame, litio, cobalto, ecc.) necessari ai dispositivi hi-tech per la produzione di energia “pulita” degli impianti eolici e fotovoltaici e delle batterie delle auto elettriche.
La rarità richiamata dal nome è dovuta non tanto alla scarsità, quanto alla capacità di abbattere enormemente i costi di produzione, altrimenti proibitivi in quanto antieconomici.
Anche in questo settore la Cina è leader mondiale, superando di quattro volte la produzione degli Usa, posizionati al secondo posto. Su simili primati incide non solo la disponibilità mineraria domestica, ma anche l’attitudine ad accaparrarsi le risorse di Paesi carenti di vincoli normativi, con manodopera a bassissimo costo e sui quali scaricare l’impatto ambientale della lavorazione. È dunque questa una delle frontiere più avanzate delle sfide della geopolitica attuale.
A farne le spese, tingendo di rosso sangue i minerali estratti, sono le vittime del gioco a somma zero che vede lo sviluppo di talune società scontarsi sulla pelle di altre. Così è per il Congo (già Zaire), le cui enormi ricchezze naturali costituiscono al contempo la sua antica maledizione. Già a inizi ’900, con l’avvento dell’automobile, il Paese pagò con 10 milioni di morti le atrocità dello schiavismo belga legato alla domanda di linfa di gomma. La scoperta di giacimenti minerari nel distretto del Katanga mutò l’oggetto della predazione, che non sarebbe mutato con l’indipendenza allorquando, con il sostegno occidentale, si instaurò il sultanismo cleptocratico di Mobutu (1965-1997).
Indebolito e reso superfluo dalla fine dell’antagonismo bipolare, nel 1997 venne rovesciato da Kabila. Da allora, il governo di Kinshasa ha diversificato le partnership delle concessioni, aprendo alle compagnie cinesi disposte a scambiare le esenzioni fiscali e la mano libera sullo sfruttamento con la realizzazione delle infrastrutture non finanziate da Fmi e Banca mondiale. I rapporti con Pechino sono divenuti sempre più stretti negli ultimi anni, con la crescita vertiginosa della domanda di cobalto per la produzione di batterie ricaricabili, a cui le imprese provvedono con largo uso di manodopera occulta che, con mezzi propri, scava per 2 dollari al giorno.
Altro minerale hi-tech è il coltan, da cui si ricava il tantalio dei condensatori elettrolitici. Esso è particolarmente presente nei distretti di Kivu, al confine con Ruanda e Uganda, inclusa nel teatro delle guerre dei Grandi Laghi che, dagli anni ’90 a oggi, hanno mietuto gli 8 milioni di morti dell’“Olocausto nero”. Da quando, destabilizzando gli equilibri etno-tribali, vi si introdussero gli hutu ruandesi in fuga dalle rappresaglie per il genocidio tutsi (1994), si sono contati oltre 100 gruppi in lotta tra milizie secessioniste, paramilitari filo- e anti-governativi, jihadisti, segmenti di truppe non smobilitate dei Paesi partecipanti alla Prima (1996-1997) e alla Seconda Guerra mondiale africana (1998-2003) e bande mercenarie ingaggiate nel conflitto tra l’esercito regolare congolese e il Cndp del generale Nkuda (2004-2008). Questi gli attori che si contendono il controllo delle cave, in un coacervo di ribellismo politico, odio etnico e mafie internazionali che le missioni Onu (prima Monuc, poi Monusco) non riescono a dipanare. L’agguato che il 22 febbraio dello scorso anno costò la vita all’ambasciatore Attanasio, al carabiniere Iacovacci e all’autista Milambo ha fornito un momentaneo risalto mediatico a una regione flagellata da massacri, saccheggi, stupri, diaspore, Ebola e Tbc.
Oltre ad alimentare illeciti paralleli (traffico di armi e riciclaggio di denaro), la filiera estrattiva giova anche al Pil di Ruanda e Uganda che dall’instabilità dell’area profittano per acquistare il coltan dai signori della guerra e smistarlo sulle rotte del mercato globale, prestandosi alla contraffazione della tracciabilità con cui le multinazionali in Occidente eludono le norme che vietano l’uso di materie prime provenienti da zone di guerra.
Per rendersi conto della compressione dei costi di prima produzione, basti pensare che per 12 ore di scavo giornaliero il salario atteso è di 50 euro mensili, quando il prezzo per un kg raffinato è 10 mila volte superiore. Ma i frutti avvelenati della “febbre del coltan” sono ancora altri: stillicidio di morti nel crollo dei cunicoli; intossicazioni chimiche e patologie legate al contatto radioattivo; lavoro minorile; inquinamento delle falde; sfollamenti dei villaggi scalzati dalle cave; alterazione degli ecosistemi forestali; abbandono delle campagne con conseguenti carestie.
Gli ostacoli frapposti sinora dagli organismi internazionali sono stati facilmente aggirati. Eppure, la sensibilizzazione del consumo critico e dei movimenti d’opinione può essere determinante per investire sulle 4R (riuso, riciclo, riparazione e riduzione) in contrasto alla compulsione estrattiva commissionata dalla ricettazione industriale e indurre le istituzioni a sostenere la responsabilità sociale d’impresa in termini di sostenibilità ad ampio spettro, senza attardarsi in ipotesi che rinviino le soluzioni o spostino il problema precostituendo emergenze future. La validità delle misure dipende dal concepire ambiente e umanità in chiave olistica, senza la retorica di un’interdipendenza globale che dissimula gerarchie e vittime sacrificali. A esprimerlo sta la continuità tra le encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti, ove la tutela della casa comune si compenetra con i temi della pace, della giustizia e dell’equità, illustrati dal concetto di un’ecologia umana integrale, moralmente coerente e, perciò, razionalmente efficace a ogni latitudine, a beneficio dei nostri figli.
(*) Pontificia Università Lateranense