Sri Lanka. La ricerca di giustizia dei testimoni degli attentati di Pasqua 2019: “Dobbiamo continuare a vivere per chi ha perso la vita quel giorno”

Erano le 8,45 del 21 aprile 2019, quando improvvisamente un’esplosione interruppe i festeggiamenti per la Pasqua nel santuario di Sant’Antonio a Colombo in Sri Lanka, seguita poi in successione da altre 5 bombe che, prima delle 8,57, colpirono la chiesa di San Sebastiano di Negombo, la chiesa evangelica di Sion a Batticaloa e tre alberghi di lusso di Colombo. 269 i morti, 82 bambini, e quasi doppio il numero dei feriti. Le testimonianze di chi ha vissuto quei momenti e chiede giustizia e verità

Foto Calvarese/SIR

Erano le 8,45 del 21 aprile 2019, quando improvvisamente un’esplosione interruppe i festeggiamenti per la Pasqua nel santuario di Sant’Antonio a Colombo in Sri Lanka, seguita poi in successione da altre 5 bombe che, prima delle 8,57, colpirono la chiesa di San Sebastiano di Negombo, la chiesa evangelica di Sion a Batticaloa e tre alberghi di lusso di Colombo. 269 i morti, 82 bambini, e quasi doppio il numero dei feriti, secondo il card. Albert Malcolm Ranjith Patabendige Don, arcivescovo metropolita di Colombo, che fin dal principio ha ipotizzato ci potesse essere un complotto politico dietro questi attentati kamikaze, inizialmente rivendicati dall’Isis, portando la questione all’attenzione di Papa Francesco, dell’Onu e della Corte internazionale di giustizia dell’Aia. Ad accompagnare il porporato singalese in questa missione, ci sono le testimonianze delle persone restate coinvolte negli attentati, che a distanza di tre anni non possono dimenticare il sangue delle centinaia di corpi dilaniati tra i banchi delle chiese, il dolore fisico e quello interiore per la perdita dei propri familiari.

“Vogliamo sapere la verità, non sto cercando la giustizia, altrimenti per ottenerla dovrei riavere indietro i miei figli, però voglio che i colpevoli di questo attentato vengano puniti”,

sono le parole di Saman Srimane, buddista che ha perso sua figlia Meda, 22 anni, ed il figlio Imash, 19 anni, uccisi in chiesa dove si trovavano perché volevano affidare i loro studi rispettivamente per l’università e per l’esame di stato  a Sant’Antonio, di cui erano devoti.

Srimane è tra le persone che sono seguite dalla diocesi in questa vicenda, “anche se io sono buddista, in questi tre anni non mi hanno mai abbandonato. Non hanno pensato solo ai cattolici”, e collabora al progetto per fare giustizia sul caso degli attentati di Pasqua in Sri Lanka del 2019, assieme alla 22enne Gloriya George che, assieme alla sorella più piccola di 2 anni, ha visto il padre morire tra le sue braccia mentre lo caricava su un taxi per portarlo in ospedale, dove è stato anche derubato di oro e denaro. “Quando è successo tutto, ho detto: non c’è Dio in questo mondo! Dopo invece mi sono ricreduta ed ho capito che Dio mi ha dato la forza ed il coraggio per affrontare tutto questo”, le sue parole che in breve tempo ha imparato ad affrontare da sola tutte quelle cose che prima faceva assieme al padre, senza mai abbandonarsi alla disperazione davanti alla sorella più piccola e la madre disperata, per dare loro coraggio, aspettando di chiudersi in bagno per piangere. Lei continua a pregare il Signore che la assista tenendole la mano, come ha fatto con Papa Francesco, incontrato in udienza ed al quale ha stretto le mani, bagnandogliele di sudore prima di consegnargli la preghiera di fare giustizia per tutte le persone morte. “Io non posso vivere, era la mia famiglia, non posso vivere senza di loro”, continua a ripetere Ranil Sanjaya, 48 anni, che ha perso due figlie di 12 e 14 anni, oltre alla moglie di 39 anni e, dato che lui era impegnato in Italia a lavorare, ha visto per foto i loro corpi dilaniati e resi quasi irriconoscibili dall’esplosione che è avvenuta molto vicino. Dopo la disperazione che lo ha spinto fino all’alcoolismo, adesso lui ogni giorno prega davanti alle foto della sua famiglia, disponendo un fiore ed un boccone di mangiare davanti ad ognuna di loro, immaginando che siano ancora con lui per non impazzire e trovare la forza di andare avanti, così come Pradeep Thushantha che nell’attentato ha perso la moglie di 35 anni, la figlia maggiore di 14 anni, la figlia minore di 9 anni ed il figlio piccolo di 7 anni, ed ogni notte di pioggia va a dormire al cimitero per stare vicino alla figlia piccola, che aveva paura dei lampi e dei tuoni, e bagnarsi assieme alla sua famiglia che si trova nelle tombe.

“Ho fatto tre lavori per portare avanti la famiglia, non ho sacrificato me stesso perché altre persone potessero ammazzarli – ripete Thushantha – io ho il diritto di sapere perché e da chi sono stati uccisi”. Giustizia è la parola che tutti ripetono, come Anusha Kumari, che ha perso il marito di 46 anni, la figlia di 21 ed il figlio di 14 anni, oppure Prassana Jayal, che a 52 anni è costretto su una sedia a rotelle perché paralizzato quasi completamente nella parte destra e non riesce neppure a parlare, o Elesha Debbie che ha 9 anni ed ha perso entrambi i genitori nell’attentato e non vede più nulla a causa delle schegge e dei coaguli di sangue che ha in testa e che, se non riusciranno a trovare qualcuno disposto ad operarla, potrebbero ammazzarla improvvisamente. “Dobbiamo vivere, continuare a vivere per tutti coloro che hanno perso la vita quel giorno”, continua a ripetere dalla carrozzina su cui è costretta perché paralizzata Thilina Harishani, che ha visto morire il figlio di 6 anni ed oggi guarda con speranza a Papa Francesco, così come Chandima Niranjalee, che nell’attentato ha perso il marito di 45 anni e le due figlie di 15 e 13 anni, “è stata dura ma sto continuando a lottare per sapere cosa è successo”, le sue parole che con sarcasmo si rivolge a tutti i Paesi che immediatamente dopo l’attento hanno rivolto le loro condoglianze, “basta solo questo?”.

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