Una delle poche, pochissime evidenze che sembrano profilarsi in questa guerra (non dichiarata), ovvero in questo pezzo terza guerra mondiale appunto a pezzi, che tanto più ci colpisce perché la sentiamo particolarmente vicina, è che forze potenti mirano a farla durare. Sembra ci sia un concorrere di gesti e parole che tende a dispiegare un centro di ostilità, a media intensità, di durata indefinita. La prospettiva è quella di generare un conflitto, questa volta più largo di quello che dura da otto anni nel Donbass, dispiegato nel centro dell’Europa. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che l’Europa si estende dall’Atlantico agli Urali, e tra Lituania, Ucraina e Bielorussia, ha il suo centro geografico.
In questo caso, con la guerra, la geografia necessariamente richiama e interroga la storia, la politica e la forza armata, e formula un interrogativo angoscioso: cosa fare di questa terra al centro dell’Europa? Una palude dove impantanare condivisione e solidarietà, un muro per separare uomini e idee, una fossa comune dove seppellire sogni e speranze? Tutto questo o cos’altro?
Articolare una risposta univoca oggi non è possibile: troppo difficile spiegare questa anacronistica guerra, se non attraverso la visione di una logica della forza bruta e dell’aggressione, che per fortuna, fino ad ora, non ha vinto. Ma se vogliamo dare un senso alla parola “pace” occorre che qualcuno sappia guardare oltre, oltre le macerie, la cui visione oggi, richiama quelle della seconda guerra mondiale, da Stalingrado a Berlino. Urge articolare, senza indugi e in ogni modo, una risposta positiva per far sì che questa terra, posta al centro geografico dell’Europa, da teatro di un conflitto violento e senza scrupoli, si trasformi un ponte per unire, in un luogo di libertà e di democrazia. Questo implica necessariamente fantasia istituzionale e l’indispensabile riavvicinamento tra le due parti di questa Europa, l’Oriente e l’Occidente, oggi invece sempre più a rischio di allontanamento se non separazione. Una vera “Unione europea” di cui la Russia era e resta parte fondamentale. Un riavvicinamento che necessita anche la collaborazione di altri “partners”, altri attori collegati, come i componenti dell’Alleanza Atlantica, Stati Uniti e Canada, ma anche Turchia, membro della Nato che però non si adegua alla linea della politica delle sanzioni, per non dire delle altre potenze mondiali, come la Cina, che non possono disinteressarsi o partecipare solo a tutela del proprio interesse.
In questo scenario e in questa direzione occorre dare gambe, braccia, intelligenze e operosità alla prospettiva che, unico tra gli attori mondiali, Papa Francesco non si stanca di indicare. Si rilegga a questo proposito il suo primo discorso a Malta, con l’immagine della rosa dei venti. Che vale per il più piccolo degli Stati dell’Unione, ma anche per l’Italia e tutta l’Unione. Si riascoltino le sue parole pronunciate al mondo in occasione della Pasqua.
Da anni ormai assistiamo a una regressione continua, nel mondo, del valore della democrazia, regredisce nel mondo, proprio quando si era pensato o tentato di “esportarla”, magari attraverso l’intervento militare, come in Afghanistan oppure alimentando il famoso “regime change”, come nelle cosiddette “primavere arabe”.
La democrazia non si può esportare, si deve costruire. Fa bene alle persone e ai gruppi sociali, ma è un equilibrio molto delicato, che non gode oggi di splendida salute, ma può e deve essere sviluppata. A ricordarlo in maniera efficace, la fondazione vaticana, la Gravissiumum Educationis, che ha prodotto materiali utilissimi. Le macerie si possono ricostruire solo se c’è un progetto. Sennò richiamano solo altre macerie.