In Egitto il regime militare di Al Sisi “purtroppo ha avuto successo e questo modello viene esportato anche altrove: pensiamo al recente colpo di Stato militare in Sudan”: Giuseppe Acconcia, autore del saggio edito da Exormà edizioni, “Egitto democrazia militare”, intervistato da “Popoli e Missione” (nel numero di dicembre è presente anche una approfondita analisi di Pierluigi Natalia intitolata “L’Egitto e i suoi complici”), affronta la situazione nel Paese africano dove è in corso il processo allo studente Patrick Zaki. Questa mattina, al termine della terza udienza, il giudice ha deciso di scarcerare lo studente egiziano dell’Università di Bologna, ma l’assoluzione è ancora lontana. La prossima udienza è fissata per febbraio.
Professor Acconcia, parliamo anzitutto di uno dei casi ancora aperti che vede mobilitata anche l’Italia: perché lo studente egiziano dell’università di Bologna Patrick Zaki è finito in carcere?
In Italia c’è stata e c’è tuttora una mobilitazione straordinaria per Zaki, a Bologna e soprattutto presso l’università nella quale studiava. C’è un attaccamento dei compagni di studi di Patrick alla sua figura e un bisogno di giustizia per lui. C’è stata la richiesta di conferirgli la cittadinanza italiana. Ma al di là della mobilitazione e della solidarietà internazionale, nel caso Zaki tanti altri elementi entrano in gioco e sono da prendere in considerazione: lo studente è stato arrestato nel febbraio del 2020 e non sappiamo ancora i veri motivi della detenzione.
Quali sono i capi di accusa?
Era stato accusato di diffondere notizie false: sono arrivati a dire che Zaki era andato all’estero solo per studiare l’omosessualità. E sappiamo che questo tema in Egitto è molto delicato. Nel momento in cui è stato avviato il processo, poi, si è passati ad un’accusa specifica: avrebbe divulgato notizie false sui copti (ricordiamo che lui stesso è un copto egiziano) e avrebbe pubblicato un articolo falso sulla giornata tipo di un copto egiziano: questo testo è stato usato per procedere contro di lui. Ma l’accusa non regge: i suoi avvocati in particolare hanno obiettato che si tratta di un articolo di opinione e dunque non può essere giudicato. Ma il punto è che tantissimi altri attivisti come lui sono in carcere: ci sono 60mila prigionieri politici in Egitto. E le motivazioni sono in gran parte pretestuose.
Ci sono elementi che legano il caso Zaki a quello di Giulio Regeni?
Le altre due chiavi di lettura sono: Patrick Zaki stava svolgendo un master, era un ricercatore e questo rientra negli attacchi del regime egiziano agli accademici e agli studenti e ricercatori. Molti ricercatori egiziani subiscono trattamenti analoghi. Fanno le loro ricerche su temi controversi, come può essere la violenza contro le donne, e subiscono ritorsioni. Ma c’è un’altra interpretazione: in Italia si è aperto il processo Regeni. Uno dei più importanti avvocati egiziani dice che l’arresto prolungato di Zaki può essere stato uno strumento nelle mani di chi lo accusa, da usare come pedina di scambio. Ossia, poiché non era possibile colpire direttamente il nostro Paese, la cosa più semplice da fare era quella di arrestare con motivi arbitrari uno studente egiziano in Italia. Cosa di fatto avvenuta.
Ma Al Sisi non ha oppositori a livello internazionale?
Evidentemente siamo di fronte ad una figura che viene ritenuta centrale per la stabilizzazione del Medio Oriente e questo a detrimento delle migliaia di giovani che nel 2011 in Egitto hanno creduto nel movimento di piazza Taharir. Ci sono icone della Rivoluzione arrestate per motivi banali e non vengono rilasciate. Solo la Turchia di Erdogan sembra più critica nei confronti del Cairo, ma sappiamo chi è Erdogan…
C’è qualche luce in questo tunnel egiziano?
Un piccolo lato positivo c’è: è stata chiusa alcune settimane fa la stagione dello stato di emergenza in Egitto; non sappiamo se avrà effetti concreti sulla popolazione e sugli egiziani. Era stato reintrodotto dopo le rivolte del 2011 e ora la sua conclusione potrebbe portare a maggior distensione.
(*) redazione “Popoli e Missione”