Non c’è lotta al Covid-19 senza una diffusione globale dei vaccini. E non c’è lotta al virus senza destinare un canale preferenziale ai più fragili come i sieropositivi. In occasione della Giornata mondiale contro l’Aids, la Comunità di Sant’Egidio rilancia la sfida dei centri Dream, presente dal 2002 in dieci Paesi africani, con 50 strutture che offrono accesso gratuito a diagnostica e cure di eccellenza, soprattutto nella cura dei sieropositivi che in Africa sono 25,6 milioni secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Negli anni, il programma Dream ha curato oltre 500mila persone e permesso la nascita di 120mila bambini sani grazie alla cura antivirale somministrata in gravidanza. Da alcuni mesi, in Malawi, Repubblica Centrafricana e Repubblica Democratica del Congo sono iniziate le vaccinazioni contro il Covid-19, dando la precedenza ai malati di Aids, a maggior rischio di infezione e gravi conseguenze nella malattia a causa del sistema immunitario deficitario. Paola Germano, direttrice di Dream, da alcuni giorni è in Repubblica Centroafricana, dopo essere stata in Malawi per aprire nuovi centri di vaccinazione anti Covid. “Ora la nostra missione è questa”, racconta. “In questi giorni, il mondo vive con ansia e paura l’arrivo della nuova variante del virus Sars-Cov-2, Omicron. La reazione del Nord del mondo finora è stata quella di isolare l’Africa per impedire alla variante di diffondersi. Ancora non si ha la consapevolezza che da questa pandemia si esce solo tutti insieme”.
Vaccinare contro la nuova pandemia significa allo stesso tempo continuare a lottare contro l’altro virus, quello dell’Hiv?
Abbiamo una infrastruttura in dieci Paesi africani che ci permette la distribuzione dei vaccini e non solo. Ci occupiamo da venti anni di malattie infettive, il nostro personale è formato e sensibilizzato, i laboratori sono attrezzati. Purtroppo non ci sono molti vaccini.
A Bangui dove sono ora, i vaccini al momento non ci sono. Sono attesi, ma il problema è che in Africa i vaccini vengono dati con il contagocce.
Finiscono e poi occorre aspettare altri mesi per ricominciare le campagne di sensibilizzazione. C’è un problema evidente di diseguaglianza: noi italiani siamo alla terza dose, molti africani nemmeno alla prima.
Di chi è la colpa del ritardo?
I vaccini sono mandati dall’Organizzazione mondiale della sanità e dal Covax, lo strumento creato dall’Oms. Sono sicura che fra Europa e Stati Uniti abbiamo stoccato miliardi di vaccini che non useremo tutti. Il perché non li mandiamo ai Paesi africani è una buona domanda. Oltretutto i vaccini che arrivano in Africa hanno scadenze molto brevi. La logistica in questi Paesi non è la stessa da applicare in Europa. Ci vuole tempo per colpa delle tante zone remote difficili da raggiungere o la mancanza di frigoriferi per lo stoccaggio perciò mandare vaccini con scadenza breve mi sembra una ulteriore diseguaglianza. Salvare l’Africa vuol dire salvare anche noi. Il virus non conosce i muri nonostante noi europei ci stiamo chiudendo. Il virus viaggia e infatti è arrivato.
La soluzione è distribuire i vaccini per tutti ovunque, per evitare la creazione delle nuove varianti.
L’Africa è segnata da tante epidemie dovute alla diffusione delle malattie infettive. A Bangui che situazione ha trovato nell’assistenza sanitaria?
Lavoriamo in Repubblica Centrafricana da cinque anni, da subito dopo la visita del Papa. La situazione sanitaria è quella di un Paese che è stato a lungo in guerra. In collaborazione con il ministero della Salute locale che ci ha chiesto di occuparci di alcuni settori ha portato a buoni risultati. Affianchiamo il personale sanitario del luogo e per Dream è questa la sfida: creare una classe sanitaria capace di gestire e lavorare per il proprio Paese. Abbiamo trovato una grande disponibilità del personale a imparare per curare la propria gente. Siamo partiti dalla Hiv, ora c’è l’emergenza Covid, ma in passato abbiamo lavorato per curare i bambini epilettici che qui vengono chiusi in casa. Abbiamo iniziato a curarli e per loro è significato quasi un miracolo. Ora i bambini vanno a scuola e non c’è più lo stigma. Si tratta di una operazione per affermare la scienza e l’educazione alla salute. Anche nel caso del Covid, è necessario parlare alle persone per informarle. Coinvolgendo i malati, le persone si fanno testimoni. Senza questa azione, non si ottengono risultati.
L’80% dei sieropositivi in Africa sono donne. C’è una ragione che spiega questa maggiore incidenza?
In tutto il mondo sono soprattutto le donne a essere infette. Il problema sono i numeri che riguardano l’Africa: qui gli infetti da Hiv sono quasi 26 milioni e la maggioranza sono donne anche perché sono vittime di abusi. Inoltre senza una cura antiretrovirale in gravidanza anche i bambini nascono malati.
Questa è stata la nostra missione: far nascere i bambini sani dalle donne sieropositive.
In Mozambico, uno dei Paesi dove abbiamo cominciato venti anni fa, c’è una generazione nata libera dall’Hiv. Questo è un grande risultato.
Alcuni recenti studi ipotizzano che la nuova mutazione Omicron sia nata in un individuo con sistema immunitario compromesso come i pazienti con Hiv.
La mutazione può nascere così. In Africa abbiamo 500mila sieropositivi in cura, bisogna vaccinarli subito. Non solo per la loro vita o per un principio di uguaglianza. Bisogna farlo per consentire un futuro a tutti.
In Occidente c’è poca attenzione verso il problema dell’Hiv in Africa secondo lei?
Con il Covid si è riacceso l’interesse perché si è capito il legame fra le due epidemie ma per anni l’Africa è stata abbandonata. Mi sembra una tendenza generale questa che ha l’Occidente di abbandonare il continente. Il Covid è la dimostrazione evidente della nostra illusione: crediamo che isolandoci possiamo proteggerci abbandonando i Paesi più poveri. Anche per l’Hiv in Africa, c’è disinteresse e stanchezza da parte dell’Occidente.