C’è, ovviamente, un filo rosso che lega Roma con Glasgow, il G20 con la Cop26. E non a caso gli eventi si susseguono nel calendario. Perché i due appuntamenti, diversamente assortiti per partecipanti e obiettivi dichiarati, mostrano caratteri comuni. Il primo dei quali è il multilateralismo, giustamente definito dal premier italiano Mario Draghi, “la migliore risposta ai problemi che vediamo oggi. In molti sensi l’unica risposta possibile”. Un elemento irrinunciabile è proprio questo: avere una visione politica ed economica globale, che si faccia carico della complessità dei problemi, del loro intersecarsi, provando a fornire risposte credibili e realmente percorribili. Si tratti di economia sostenibile, di risposta al cambiamento climatico, di tassazione e sistema finanziario internazionale, di lotta a questa e alle prossime pandemie, di sviluppo dei Paesi arretrati, di migrazioni, di contrasto al terrorismo, di costruzione di una pace irreversibile nelle regioni martoriate del pianeta, di rispetto dei diritti umani e dell’uguaglianza di genere in ogni angolo della Terra.
Il documento finale del G20 si sofferma su diversi di questi punti. A partire dall’impegno a limitare il riscaldamento globale (conferma Accordo di Parigi, mantenere aumento della temperatura globale sotto i 2 gradi, proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5 gradi ma senza indicare una data precisa) fino alla Global Minimun Tax, passando per i 100 miliardi di dollari l’anno a favore delle nazioni povere. Ora la palla passa alla Conferenza delle Nazioni Unite in terra scozzese che, pur concentrandosi in particolare sui temi ambientali, dovrà per forza di cose tener conto di tutti questi altri aspetti: agire sui diversi fronti è infatti premessa, e garanzia, per un successo da costruire passo dopo passo, nel tempo, coinvolgendo gli attori politici, economici, sociali.
In questo senso occorre correggere lo scetticismo mostrato dalla giovane Greta Thunberg, secondo la quale un vero cambiamento sul fronte-clima – semmai arriverà – non giungerà dalle decisioni politiche “di vertice”, ma solo da azioni di ecologia integrale (condividendo l’espressione a Papa Bergoglio) scaturite “dal basso”, nella vita quotidiana. Occorrono sicuramente un cambio di paradigma culturale e stili di vita “amici dell’ambiente”, come ci insegnano i giovani dei Fridays for Future; ma sono altrettanto necessarie decisioni e azioni strategiche che partano dai responsabili istituzionali, si tratti di capi di Stato e di governo, di parlamenti, di amministratori regionali e locali. I quali, scelti dai cittadini (almeno nei Paesi democratici), ad essi devono rispondere circa l’impegno per un pianeta vivibile, oggi e per le prossime generazioni.
A questo punto è forse possibile indicare altre due caratteristiche che le grandi assise come G20 e Cop26 dovrebbero incarnare per giungere ad accordi, e poi a risultati, davvero ambiziosi. Oltre al multilateralismo (negazione del nazionalismo e del populismo che attraversano gran parte della politica mondiale, Italia compresa), occorrono ambientalismo saggio, ovvero realizzabile, e – passi l’espressione “mutuata” dal piano religioso – sinodalità. Quest’ultima, infatti, richiede di camminare insieme, di porsi in ascolto (dei popoli, delle ferite della Terra e delle genti, delle istanze reciproche…) e di discernere a livello comunitario prima di assumere decisioni.
A Roma qualche segnale è stato lanciato. Ora ci si può attendere che lo stile sinodale sia applicato a Glasgow?
Quel filo rosso che lega Roma con Glasgow. Passando per la “sinodalità”
Al G20 celebrato nella capitale italiana segue in questi giorni la Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico in terra scozzese. Al centro dell'attenzione figurano diversi temi, intrecciati tra loro: ambiente, economia sostenibile, lotta alla pandemia, aiuti ai Paesi poveri, tutela dei diritti umani, migrazioni, relazioni internazionali e sicurezza. Ai responsabili delle nazioni si chiedono sguardo multilaterale, propensione alla salvaguardia del creato e la capacità di "camminare insieme"