(da New York) “Come gli anni ’60 hanno plasmato, con i loro tumulti, le scelte e gli ideali di molte generazioni, così si può dire anche degli eventi dell’11 settembre 2001: saranno sempre un indicatore di cosa siamo diventati”.
Amy Uelmen, docente e direttrice della mission della facoltà di Legge dell’Università di Georgetown e ricercatrice al Berkley Center for religion, peace and world affairs considera quel giorno uno spartiacque, al pari della guerra in Vietnam e del Watergate.
Dove si trovava quel giorno professoressa Uelmen?
Lavoravo nel campus della facoltà di legge dell’università di Fordham, vicino al Lincoln Center a New York. Sugli schermi dell’anfiteatro, insieme ai miei colleghi, abbiamo visto crollare in diretta le due Torri. Poi sono arrivati i momenti dell’ansia, della paura, della ricerca frenetica di amici e familiari; mentre le storie di chi era scampato all’inferno ci sommergevano. Per settimane, dalla casa di alcune amiche nel Bronx, abbiamo visto il fumo e le fiamme che si levavano dal World Trade Center.
Ricorda ancora come la città reagì?
Due giorni dopo l’attentato ho preso la metro per tornare al lavoro. In quei vagoni che erano il simbolo dell’anonimato si faceva a gara per offrire il posto all’altro, per lasciargli spazio, quando di solito si viaggiava a spintoni. Eravamo completamente trasformati. Percepivo un’intensa consapevolezza dell’altro, della sua umanità, del dono di essere tutti vivi, e un profondo rispetto per chi poteva essere in lutto. Nella chiesa attigua alla facoltà abbiamo acceso due ceri altissimi per ricordare le vittime, durante una liturgia gremita all’inverosimile.
Tra qualche giorno ricorrerà il 20° anniversario di quella tragedia. Come sono cambiati gli Stati Uniti dopo l’11 settembre?
Mi sono chiesta spesso, nei giorni dopo l’attacco, se la nostra trasformazione fosse una reazione artificiale allo stress o se invece esprimesse un desiderio più profondo per la nostra cultura. Devo ammettere che le speranze di cambiamento, negli anni che sono seguiti alla tragedia, sono state deluse e abbiamo visto la politica della paura e del sospetto prendere il sopravvento, anche sugli ordinamenti giuridici; anche sulla difesa dei diritti umani, risuscitando pratiche che credevamo sepolte per sempre, come quella della tortura nelle prigioni di Guantanamo o ad Abu Dhabi, o ancora la sorveglianza poliziesca messa in atto verso i musulmani o i mediorientali.
Quali sono state le ricadute di questa cultura della paura?
Faccio un esempio concreto. Nella mia università aveva istituito un corso su cosa significasse essere un avvocato musulmano e quali contributi l’Islam poteva dare ai sistemi etici e culturali occidentali. Questo lavoro di dialogo è stato pesantemente infettato da pregiudizi, fobie, da un concetto di diritti civili che ha inficiato la complessità e ha ristretto le possibilità di contaminazione positiva, facendo prevalere la xenofobia.
La cultura della paura ha rafforzato la dipendenza della nostra economia dalle spese militari; mentre arroganza, denaro, interessi di parte si sono infiltrati in un cammino che poteva essere diverso.
Come cittadina americana e avvocato, volevo pensare che il mio Paese avrebbe avuto la visione e il coraggio di uscire dalla crisi navigando con onore e virtù questo momento spartiacque della nostra storia. Non immaginavo quanto invece sarebbe diventato arduo.
L’esportazione della democrazia, dopo l’11 settembre, è stato uno slogan che ha lacerato equilibri interni in molti Paesi e provocato conflitti ventennali come quello in Afghanistan. Possiamo ancora usare questi slogan dopo queste tragedie?
Queste guerre hanno segnato la fine definitiva della nostra innocenza; nel senso di capire quale ruolo avremmo avuto nel mondo e come poter continuare ad offrire modelli come la democrazia, la difesa dei diritti umani, etc. Questi valori sono positivi? Certamente. Ma è il metodo che va totalmente ripensato. È quello che ripeto ai miei studenti. dicendo che il lavoro interculturale è durissimo e che arrivare all’incontro tra le menti è arduo e non può mai essere dato per scontato. Niente ci è dato, per cui serve scavare dentro l’evidenza e capire in quel concetto di valore cosa c’è in gioco per gli altri che sono molto diversi da te. Come Paese stiamo ancora cercando di capire quali risvolti possa avere in politica estera. Certamente gli Usa sono un esempio di dove la politica della paura può condurre una nazione e stiamo vedendo che anche l’Europa non è esente da questo pericolo. Penso che chi abbia davvero trovato un antidoto a questa politica è papa Francesco quando propone la cultura dell’incontro reale, capace di scacciare il timore.
Abbiamo guardato al passato, ma se volessimo guardare ai prossimi 20 anni, quali percorsi scaturiti dall’11 settembre andrebbero esplorati?
Il primo sarebbe quello dei dialogo culturale: un percorso duro che non funziona con i deboli di cuore perché quando si entra nello spazio dell’altro bisogna sempre prepararsi ad interrogare se stessi. Il dialogo richiede una capacità di contenere differenze profonde, senza pensare di poterle “risolvere” o re-inventare.
Il secondo è quello di soffiare sui desideri dei giovani, sulla loro capacità relazione e di comunità che richiede alle generazioni di tenere gli occhi allenati sui desideri.
Per il terzo percorso, direi in maniera brutale: seguire i soldi. Scavare e capire chi sta facendo un sacco di soldi con la cultura della paura, diffondendola sui social, trasmettendola con la politica. Seguire questi “chi”, dargli la caccia e affrontarli dietro ai presunti idealismi, di cui si fanno scudo.