Si divide tra corsia e sala operatoria Ornella Spagnolello, 32 anni. Origini siciliane, laureata in medicina d’urgenza, risponde a una videochiamata del Sir dall’Ospedale Emergency di Kabul, dove è arrivata lo scorso giugno. Alle spalle vanta già diverse esperienze “forti”: in Sudan, Congo, a Bergamo nel periodo più duro della pandemia Covid-19.
Dottoressa, quale clima si respira in città? La popolazione che voi incontrate come vive questa situazione di transizione e di violenza nella capitale?
Avverto un clima di profonda apprensione per quanto accade in questi giorni e in relazione al prossimo scenario politico, sociale, ed economico dell’Afghanistan. Anche perché vi è grande incertezza e il futuro dipenderà da diversi fattori.
Quello di Emergency è, a Kabul, forse l’ospedale più attrezzato sul piano sanitario. Dopo le vicende degli ultimi giorni, attentato all’aeroporto compreso, il vostro lavoro sarà cresciuto a dismisura. Riuscite a curare tutte le persone che arrivano da voi?
L’ospedale di Emergency conta 105 posti letto, dispone di tre sale operatorie che possono lavorare contemporaneamente, e in questi giorni in effetti sono attive in continuazione. Abbiamo 6 posti in terapia intensiva, c’è un reparto di terapia sub-intensiva. Stiamo facendo fronte a un elevatissimo numero di accessi.
Sono arrivati qui in poche ore, dopo l’attentato all’aeroporto, 62 pazienti:
10 sono stati curati al pronto soccorso, 36 sono stati ammessi ai reparti, altri 16, purtroppo, sono arrivati già morti. Alcuni, trasportabili, sono stati in seguito trasferiti in altri ospedali della capitale, coordinando gli interventi con il ministero della Salute.
Quali tipi di interventi medici sono stati necessari?
Un po’ di tutto. Essendo un ospedale chirurgico abbiamo affrontato soprattutto ferite da pallottole oppure legate ad esplosioni, traumi agli arti, all’addome, alla testa. Molti dei pazienti erano in gravissime condizioni.
C’erano anche bambini tra loro?
La maggior parte erano maschi di età compresa tra i 20 e i 40 anni, ma c’erano anche dei bambini.
In ospedale c’è un gran numero di medici, infermieri e altri operatori. Siete di diverse nazionalità? Cosa dicono della situazione i suoi colleghi?
Il personale nazionale, cioè afghano, conta 350 persone, al quale ci aggiungiamo noi, “internazionali”: siamo una decina. Devo riconoscere che i nazionali sono molto presenti, concentrati sul lavoro, attivi, con una disponibilità e professionalità encomiabili. Confesso che, se io fossi al loro posto, non so se saprei agire con la stessa lucidità. Comunque fra loro avvertiamo una certa preoccupazione.
Frequentate altri luoghi a Kabul che non siano le corsie di ospedale?
Per motivi di sicurezza, noi che veniamo da altri Paesi di fatto non frequentiamo la città, non lasciamo quasi mai l’ospedale, e quindi respiriamo dai nostri colleghi afghani il clima in cui si trovano la città e il Paese.
Dottoressa, sinceramente: ha paura? Non pensa di tornare a casa?
Siamo chiamati a convivere con la paura, è un sentimento che non manca.
Del resto sono qui perché ho aderito a questo progetto di Emergency e intendo onorarlo.
E poi tra noi c’è chi si occupa della nostra sicurezza, che è un elemento sempre prioritario nei progetti di Emergency. Va inoltre tenuto presente che il nostro è un ospedale “neutrale”, né governativo né militare, e per tale ragione non è ritenuto un obiettivo.
Di recente il mondo intero ha ricevuto la notizia della scomparsa di Gino Strada. Cosa dice la sua figura? Quale eredità lascia?
Per noi rappresenta un mentore. La sua figura, carismatica, determinata, ha consentito di avviare e realizzare progetti fuori dal comune, al servizio della pace e il cui obiettivo principale è offrire cure gratuite alle vittime dei conflitti, a prescindere dalla nazionalità, dal ceto sociale, dalla fede religiosa. È ciò che ci muove anche in questo frangente e vorremmo rendere omaggio, così, alla figura di Gino Strada.