Noto come il Paese della finanza, del commercio e dei servizi, pur con molte contraddizioni, grazie soprattutto al celebre Canale che unisce Atlantico e Pacifico, l’economia di Panama sta cambiando pelle e il Paese centroamericano sta diventando, come tanti altri Stati in America Latina, dipendente dalle risorse minerarie. Una politica caldeggiata dall’attuale Governo, dato che il Covid-19 ha assestato un duro colpo all’economia panamense e ai suoi commerci e non si vedono altre strade per rilanciarla, puntando a un aumento di almeno il 6% del Pil attraverso le miniere, soprattutto di oro, rame, tungsteno. Una pericolosa e anti-storica scorciatoia, secondo i critici, che rischia di portare con sé costi ambientali e sociali insostenibili.
I numeri sono impressionanti: nel Paese la somma del territorio oggetto di concessioni minerarie ha raggiunto la cifra di 199mila 122 ettari. È stato fatto notare che sarebbe come mettere uno a fianco all’altro 20 milioni di stadi di calcio. Le ultime concessioni risalgono allo scorso maggio: 7 grandi progetti, 25 milioni di ettari, soprattutto nelle province di Coclé (territorio al centro del Paese, sul versante pacifico) e Colón (la zona più a nord lungo la costa atlantica, in pratica il vertice della “gobba di cammello” ben visibile sulle carte geografiche). Altri progetti minacciano zone indigene protette (chiamate “comarche”), come il Ngäbe-Bugle, e le province meridionali di Veraguas (dove sono da anni il cianuro è presente nelle acque), Herrera e Los Santos.
La voce critica dell’episcopato. Tante le proteste da parte della società civile. Tra le voci critiche anche la Chiesa panamense, che in un comunicato ha lanciato l’allarme. Una denuncia che viene ulteriormente rilanciata, attraverso il Sir, da mons. Manuel Ochogavía Barahona, segretario generale della Conferenza episcopale panamense (Cep) e vescovo di Colón-Kuna Yala, proprio la provincia più interessata da vecchi e nuovi progetti minerari.
“Si tratta di un problema molto serio, chiediamo che su queste scelte si apra un dialogo nazionale, anche se temiamo che il Governo vada per la sua strada. Di fatto, si sta trasformando lo scenario economico del Paese, con investimenti da mille milioni di dollari”.
Mons. Ochogavía parla per esperienza diretta. “Abbiamo una zona forestale di montagna, che costituisce un Parco nazionale. È parte integrante del corridoio mesoamericano, una foresta di valore inestimabile, che a sud, attraverso il Darién, si unisce in Colombia alla foresta del Chocó. Qui in precedenza c’era una miniera d’oro, che ora verrà riattivata. Nei pressi, sarà aperto un giacimento di rame. Le concessioni sono state date a una società con soci del Canada e del Sudafrica. Altri progetti riguardano l’argento e il tungsteno. In pratica, Panama sta diventando come il Cile o il Perù. La differenza è che lì, molto spesso, le miniere sono in mezzo al deserto, qui in piena foresta. Si tratta di giacimenti a cielo aperto. Già con la precedente miniera d’oro abbiamo visto gli effetti del mercurio sull’acqua. Per gli impianti viene usato carbone fossile, messo al bando a livello internazionale. L’impatto ambientale è molto forte e non c’è la volontà di mettere in atto un monitoraggio attendibile”.
“Siamo vittime di una vera e propria cattura politica.
A mio avviso – spiega al Sir Lilian Guevara, direttrice esecutiva dell’ong Centro de incidencia ambiental de Panamá (Ciam), facente parte del Movimiento Panamá Vale Más Sin Minería – il Governo ha approfittato della situazione di pandemia per riattivare questi progetti. I loro effetti li conosciamo già. Nelle settimane scorse nell’impianto della provincia di Colón si sono rotte delle tubature e sono fuoriuscite sostanze inquinanti. La cosa paradossale è che il ministero dell’Ambiente non poteva ispezionare gli impianti, senza chiedere permesso ai proprietari. In pratica, lo Stato deve chiedere il permesso per entrare nel suo territorio. E del resto, lo stesso devono fare molti abitanti, per poter raggiungere le loro abitazioni”. Perfino una chiesa sorge su terreni dei padroni delle miniere.
Secondo il segretario generale dell’episcopato, a tutto questo si aggiungono “lo sfruttamento del legname delle foreste e l’industria della pasca, che condotta a livello industriale sta spogliando le risorse marine. E ora, arriva questa grande valanga”. Rispetto a quanto sta accadendo, favorito dalle leggi esistenti, oltre che da una diffusa corruzione, la Chiesa sta operando in prima linea, a livello di episcopato, di singole diocesi, di pastorale sociale, di missionari. “Stiamo prima di tutto informando la gente, che rischia di essere conquistata dalle ingenti campagne pubblicitarie delle multinazionali. Ci aiuta anche la nascita, avvenuta lo scorso anno, della Rete ecologica mesoamericana (Remam)”.
La mobilitazione della società civile. L’importanza del lavoro ecclesiale, a livello di base, viene messo in evidenza anche da padre Julio Arvaez, religioso clarettiano. “La nostra congregazione – afferma – è particolarmente impegnata per combattere contro questo che è un vero e proprio disastro per il Paese e, soprattutto, per le popolazioni locali. È importante l’azione di accompagnamento alle comunità locali, la valorizzazione dei leader sociali, indigeni, campesinos. I progetti, in alcuni casi, non risparmiano neppure le comarche, i territori indigeni protetti. Siamo chiamati a uno sforzo collettivo; in questo sentiamo la vicinanza di Papa Francesco, della sua visione di Chiesa”.
Prosegue Lilian Guevara: “Decine di comunità e gruppi ecclesiali hanno appoggiato le richieste della società civile contro le miniere, nello spirito della Laudato si’. Il coordinamento nazionale è costituito da moltissime realtà dei vari territori interessati. Cerchiamo di agire dal punto di vista legale e da quello dell’informazione e sensibilizzazione. Ci sono sindacalisti, leader sociali, campesinos, docenti e scienziati. Per quanto riguarda il primo aspetto, esiste una sentenza della Corte suprema sull’incostituzionalità delle attività estrattive, ma il Governo va avanti. Chiediamo la creazione di una Commissione indipendente e stiamo raccogliendo firme per una proposta di legge che preveda una moratoria nazionale. Quanto alla popolazione, nonostante le campagne informative delle imprese, non mi pare che la gente creda che queste attività portino ricchezza, c’è sfiducia verso il Governo. In ogni caso, gli effetti delle attività estrattive già li conosciamo. La povertà rimane, queste persone arrivano, sfruttano e se ne vanno”.
Molto bassa la percentuale sui profitti che va al Paese: Mineras Panama, proprietarie delle miniere di Colón, sono tenute a versare il 2%. “Ma la nostra battaglia – conclude l’attivista – non è quella di negoziare percentuali più alte, noi vogliamo proteggere le nostre acque, le nostre foreste e il nostro territorio”.
*giornalista de “La vita del popolo”