“Tenere la mano sempre tesa verso il mondo islamico e costruire ponti di armonia, per testimoniare al mondo che vivere insieme e in pace tra ‘diversi’ non è solo possibile ma anche bello”: è racchiuso in un messaggio carico di suggestione e concretezza il senso e l’obiettivo della missione di padre Jihad Youssef, neoeletto superiore della comunità monastica di Deir Mar Musa. Un mandato a cui è stato chiamato dal recente Capitolo generale e che raccoglie anche l’eredità del fondatore della comunità, il gesuita padre Paolo Dall’Oglio: il 29 luglio sono stati otto anni da quando non si hanno sue notizie. “Fare la volontà di Dio e portare avanti il carisma che ci ha lasciato padre Paolo è un impegno comune per i monaci e le monache. Perseveriamo nella preghiera con e per il mondo musulmano, nella curiosità spirituale, per capire come loro si avvicinano a Dio e come possiamo sentirci parte di un comune pellegrinaggio”, racconta p. Youssef al Sir.
Di origini siriane, padre Youssef sarà superiore per tre anni (rinnovabili) di una comunità di otto monaci professi (quattro uomini e quattro donne) e un novizio, presente nel monastero madre di Deir Mar Musa nel villaggio di Nebek in Siria, nel monastero della Beata Vergine a Sulaymaniyya nel Kurdistan iracheno e in Italia nel monastero del SS. Salvatore a Cori (Lt). “Quando ho lasciato casa – confida – volevo solo diventare monaco. Non ho mai pensato né desiderato il ruolo di superiore. Quando durante il Capitolo ho compreso che si stava convergendo sul mio nome, vi ho colto la volontà del Signore e una scelta, da parte loro, fatta nella sincerità e nella preghiera. Ho accettato consapevole delle responsabilità che mi aspettano: essere padre spirituale di tutti i membri, come vuole la nostra regola, perché ogni monaco e monaca si senta amato e valorizzato, e portare avanti le questioni pratiche in spirito di collegialità. Il numero di monaci e monache è inferiore ai ruoli che dovrebbero esserci in un monastero: a maggior ragione, le responsabilità sono condivise”.
Un’elezione, la sua, frutto di una scelta “democratica”.
La dimensione democratica fa emergere la libertà di coscienza, che non significa che ognuno fa ciò che vuole. La nostra è una democrazia dell’ascolto e del discernimento dei segni dei tempi, dei bisogni di tutti e delle situazioni. Una democrazia della cura, che si preoccupa di ciò che vuole Dio e delle necessità dei fratelli e delle sorelle.
Quali le sfide per la comunità dopo la pandemia?
Le persone sono la nostra priorità, nella loro diversità e in ogni situazione di vita. A giovani, famiglie, parrocchie vogliamo tornare a proporre esperienze di condivisione, lavoro manuale a contatto con la natura, dialogo intellettuale, silenzio e preghiera:
perché il bene comune sia al centro della vita di ognuno.
Per questo, ad esempio, a Mar Musa siamo attivi per il mantenimento della biodiversità del territorio e nella lotta contro la desertificazione. O, ancora, in collaborazione con la municipalità di Nebek e una ong locale, lavoriamo per il contenimento della discarica, che durante la guerra si è espansa in maniera incontrollabile. Speriamo poi di tornare presto ad accogliere visitatori e pellegrini e riprendere i seminari di studio e riflessione con i musulmani che per molti anni abbiamo promosso e che la guerra, prima ancora della pandemia, ci ha fatto interrompere. Nel Kurdistan iracheno, invece, durante la pandemia abbiamo portato avanti un forum online che vorremmo sviluppare con il progetto di una biblioteca aperta a tutti i ricercatori.
Una missione che si inserisce in terre fragili, come la Siria e il Kurdistan iracheno.
Contesto, mentalità e motivi che hanno portato alla guerra restano un ostacolo. Così come le difficoltà economiche calpestano la dignità delle persone. Sono società multietniche, multiculturali e multireligiose in cui manca visione e fiducia nel futuro. Un giovane che studia si chiede: “Potrò lavorare o farmi una famiglia?” e non trova risposta. La Siria patisce le sanzioni internazionali, la presenza di forze straniere – dai turchi agli statunitensi, dai russi agli iraniani, ai curdi –, la disoccupazione. Il Kurdistan, come la Siria, soffrono per l’alto tasso di corruzione e i problemi di relazioni nel tessuto sociale.
Quale il vostro impegno di fronte a queste difficoltà?
In Siria, sosteniamo studenti universitari che vogliano lavorare nel paese o all’estero e aiutiamo i poveri nelle cure mediche. L’asilo che gestiamo, in collaborazione con la parrocchia, accoglie 150 bambini di cui solo 10 cristiani, e lavoriamo per la formazione delle insegnanti. 60 ragazzi, infine, partecipano alla nostra scuola di musica.
In Kurdistan portiamo avanti corsi di lingua inglese, araba e kurda, catechismo, doposcuola, laboratori teatrali e di formazione professionale;mentre è rientrata l’emergenza per l’accoglienza di profughi e sfollati, perché molti sono tornati a casa e altri emigrati all’estero,
Anche in Italia, dove vivono i monaci che studiano a Roma, oltre all’impegno per il restauro della chiesa del SS. Salvatore, ci dedichiamo all’accoglienza di persone che arrivano da tutta la penisola per esperienze di amicizia tra cristiani e musulmani.Perché ovunque venga portato avanti il progetto di capire la volontà del Signore per poi darle corpo con progetti concreti.