Chi si trovasse a passare per il Libano di questi tempi non potrebbe non manifestare non poche perplessità a proposito di una società che appare contradditoria, in ogni caso unica al mondo. Che Giovanni Paolo II l’abbia chiamato con un’espressione che sapeva di profezia “un messaggio”, sembra più che mai una realtà. Il Libano è un messaggio, più che uno Stato. Un messaggio, più che un popolo (di 18 comunità religiose). Un messaggio più che un sistema economico efficiente. Ma un messaggio fondamentale, come hanno sottolineato il primo luglio le massime autorità cristiane libanesi riunite a Roma da papa Francesco, perché il Libano è il solo Paese mediorientale con una minoranza cristiana solida, in un Paese irriducibilmente di minoranze.
Già all’aeroporto ci si rende conto che l’apparato statale non è al massimo della forma, se è vero che si può entrare tranquillamente come turista, ma per il Covid non si sa bene cosa fare, sembra che si debba osservare una quarantena domiciliare (controllata con tanto di App); ma nel contempo ti fanno un test molecolare (restano dei dubbi, perché a differenza della normalità, appoggiano appena un bastoncino nella narice ed è tutto fatto, e poi il risultato… sparito nella natura) che ti libererebbe dal volontario isolamento. E poi, all’esterno dell’aerodromo, la folla di tassisti in attesa è aumentata a dismisura, e quasi nessuno porta la mascherina…
Arrivando di notte in auto a Beirut, poi, si rimane sorpresi per l’oscurità ambientale, non un lampione funziona, qualche raro locale pavesa luci fioche e instabili. Arrivando al proprio alloggio, tale malessere diventa realtà: manca l’elettricità. Tra le 2 di notte e le 8 di mattina, quasi in tutte le case non vengono messi in moto i generatori autonomi che ogni immobile possiede, i moteur, per far riposare quei grossi e rumorosi e inquinanti diesel. Ormai, infatti, lo Stato riesce ad assicurare dallo 0 al 10 per cento di corrente giornaliera, il resto ci si arrangia come si può.
Il governo non riesce ad assicurare l’approvvigionamento elettrico perché manca il gasolio, che arriva col contagocce, perché lo Stato ha prosciugato le casse della Banque du Liban, un’istituzione guidata da tempo immemorabile, cioè dal 1993, da un personaggio, Riad Salamé, che viene annoverato tra i più corrotti funzionari dello Stato. Il personaggio in questione, d’accordo con i suoi compari alla guida del Paese, di qualsiasi religione e qualsiasi partito, ha ideato un sistema economicamente intelligente ma perverso nei fatti per mantenere un tasso di sconto fisso tra lira libanese e dollaro. 1500 lire per un dollaro. Il cambio ha tenuto per vent’anni, ma già da tempo le pressioni sui cambi erano potenti, e così le speculazioni, se è vero che ancora nel 2018 si potevano tenere in banca lire libanesi lucrando tassi d’oro, 17-20%, tasso che già di per sé era indice di inflazione e di sopravvalutazione del cambio. Tra l’altro, questa politica ha permesso la crescita di un mercato parallelo, o se vogliamo nero, di cambiavalute dagli affari d’oro.
Altro elemento sorprendente è questo sistema parallelo di cambiavalute, quello dei moteur, la telefonia, l’approvvigionamento idrico: tutti servizi normalmente assicurati dallo Stato direttamente o dai privati posti in regime di concorrenza, mentre in Libano da decenni tali servizi vengono assicurati da società private in regime di oligarchia, i cui azionisti sono − guarda caso − politici di tutti i partiti, Hezbollah e presidente Aoun compresi, o esponenti di quelle 500 famiglie che detengono il 92 per cento della ricchezza libanese. Un megabyte costava tre volte che in Europa, tanto per intenderci.
Di fronte a tanto malgoverno e a tanta corruzione, il sistema sta collassando.
Già nel febbraio 2021 il Libano ha dichiarato default sui mercati internazionali, non restituendo alcuni miliardi di dollari prestati dalle banche internazionali, BCE compresa. Ora il cambio è schizzato sopra 20.000 lire per un dollaro, e si dice che in pochi giorni arriverà alle 28-30.000. Ma il Libano, questo Libano, continua a vivere senza governo.
Praticamente il Libano è orfano di esecutivo dall’epoca delle dimissioni del governo di Saad Hariri sul finire del 2017, sotto la pressione della folla della thaoura, della rivoluzione di piazza che aveva fatto scendere nelle strade libanesi circa metà della popolazione (che è di 4 milioni, più 1 milione e mezzo di siriani e 300 mila palestinesi, con circa 16 milioni di emigrati nel mondo di prima, seconda e terza generazione). Il sistema di “democrazia confessionale”, che aveva permesso di uscire dalla guerra civile (o piuttosto incivile) 1975-1990, non riesce più ad esprimere un esecutivo degno di questo nome, essendo diventato un sistema di divisione della torta e non di governo del Paese.
L’esplosione del 4 agosto 2021 al porto di Beirut, la cui origine rimarrà rigorosamente sconosciuta, troppi sono gli interessi in gioco anche dei vicini del sud e dell’est, appare l’icona di un Paese che ha subito una catastrofe epocale e sta finalmente collassando. Così ormai un libanese su tre è sotto la soglia di povertà, presto lo sarà la metà della popolazione, senza ovviamente considerare gli immigrati clandestini siriani del 2011-2012 e i palestinesi che son qui nei loro campi dal 1948, perché altrimenti arriveremmo all’80%.
Bene, se questa è la situazione, ci si aspetterebbe di trovare tutto chiuso, un clima di disperazione, una prostrazione infinita della gente. E invece… A Beirut bisogna prenotare i ristoranti con una settimana di anticipo, il traffico – nonostante le lunghissime code ai distributori e un prezzo della benzina alle stelle – è congestionato e caotico, le località di villeggiatura in montagna e al mare sono prese d’assedio. Ma dov’è la crisi? Certo, la mancanza d’elettricità è crudele e non risparmia nessuno, certo i dollari depositati in banca sono ormai carta straccia, certo, di questi tempi in Libano è meglio non prendere il Covid, di ossigeno ce n’è molto poco. Il fatto è che, se si esclude una classe media di funzionari dello Stato, professori, militari, piccoli commercianti che era benestante e che è diventata improvvisamente povera, i libanesi, per conoscenza della storia e per natura loro, sanno che bisogna diversificare la ricchezza: se si facesse un’operazione di squartamento dei materassi in Libano, si troverebbero miliardi di dollari.
Così i libanesi stanno spendendo le ricchezze accumulate nelle banche, che possono utilizzare solo in minima parte in dollari ma abbondantemente in lire libanesi: “Se il cambio scende ogni giorno, perché lasciare che i nostri soldi perdano tutto il loro valore? Meglio utilizzarli ora, che sappiamo avere un dato valore, domani chissà”, si sente dire in giro. Va poi sottolineata la natura estremamente generosa del popolo libanese e la sua struttura familiare-tribale, che permettono di mostrare una resilienza straordinaria: difficile che qualcuno resti senza pane (che non è più calmierato al 100 per cento), perché la creatività dei libanesi è infinita. Akram Nehme, un amico rigattiere e antiquario, giusto per fare un esempio, s’è trasformato in Madre Teresa delle famiglie povere: oggi ne aiuta 1900 facendo lavorare centinaia di persone e facendo capire ai ricchi che è loro interesse donare per non vedere la società esplodere, o implodere.
Ma allora, quando arriverà il collasso finale? E come si manifesterà? Nessuno lo sa. Saad Hariri ha di nuovo gettato la spugna, l’immobilismo e le difficoltà dei due grandi leader regionali, Iran e Arabia Saudita, blocca un eventuale accordo tra le parti. Usa e Francia hanno deciso di non prestare più una lira al governo libanese, ma di finanziare direttamente l’esercito, struttura ancora relativamente solida e capace di evitare il definitivo smembramento del Paese. Il presidente Aoun giace nella senescenza. Le chiese e le moschee, purtroppo, nonostante gli sforzi encomiabili di tanti prelati e imam, non riescono a spingere i “loro” politici a mettersi d’accordo per evitare il peggio. Qua e là scoppiano incidenti di una certa gravità, la città di Tripoli, sunnita, nel nord del Paese, viene considerata al limite della resistenza, persino gli Hezbollah faticano a mantenere il livello di welfare cui erano abituati.
Azzardo un’ipotesi: come la rivoluzione dell’ottobre 2017 è scoppiata per una stupida legge sulle conversazioni vocali WhatsApp, così la rivoluzione libanese riscoppierà e vi sarà qualche cambiamento, speriamo non (troppo) violento, quando anche la rete di Internet, che già a tratti mostra segni di debolezza, collasserà. Allora il Paese intero si fermerà. Ma troverà una nuova soluzione: i libanesi hanno risorse infinite. Questa è la speranza per il dopo-collasso.