Ventisei anni di vita sono pochi per tutti. E anche per un giornale. Anzi, per un quotidiano sono il minimo sindacale per considerarsi un protagonista della vita del Paese in cui opera. Il “Fatto quotidiano” di Marco Travaglio, ad esempio, ne ha solo dodici. “Il Foglio” fondato da Giuliano Ferrara ne ha 25 e “Avvenire”, il quotidiano dei cattolici voluto da Paolo VI ne ha 53, essendo nato nel fatidico 1968.
Ecco, se anche uno solo di questi tre quotidiani così diversi dovesse fermare le rotative e abbandonare i propri lettori, nessuno potrebbe gioirne. Ma pensate cosa può essere passato per la mente del fondatore, dei giornalisti, dei poligrafici e poi dell’esercito di lettori del quotidiano di Hong Kong, “Apple Daily”, chiuso per decisione del governo cinese con l’accusa infamante di aver violato la legge sulla sicurezza nazionale e aver in qualche modo cospirato “con Paesi stranieri” affinché si promuovessero sanzioni internazionali contro la Cina. Un’accusa per la quale è stato arrestato (poi rilasciato su cauzione) il fondatore Jimmi Lai, 72 anni, una delle figure più importanti dell’attivismo sociale e politico dell’ex colonia inglese ormai entrata nell’orbita senza vie di fuga di Pechino. Un’accusa per la quale anche il direttore del giornale, Ryan Law, 47 anni, è finito in cella. Un’accusa che ha provocato l’irruzione in redazione di 500 poliziotti e il blocco dei fondi della società editrice, così da mettere in ginocchio il giornale.
La gente di Hong Kong che nelle battaglie di “Apple Daily” per l’autonomia e la democrazia della ex colonia inglese aveva creduto, sino al punto di farne un simbolo di queste lotte, ha reagito nell’unico modo possibile: ha acquistato oltre un milione di copie dell’ultima edizione del quotidiano che porta la data del 24 giugno 2021.
Un rito collettivo non solo per ringraziare tutti i lavoratori del quotidiano per il loro impegno, ma anche per lanciare un segnale al regime: la partita della libertà non è chiusa. Certo, mancherà ogni giorno la possibilità di sfogliare il tabloid che utilizzava il cantonese (la lingua della colonia), mentre tutta la stampa cinese è in mandarino (lingua ufficiale della Cina). Una scelta giudicata provocatoria e aggravata dalla decisione del quotidiano di varare una edizione in inglese, giusto per consentire al mondo di conoscere un punto di vista alternativo sulla vita di Hong Kong.
Ora tutto questo spazio di libertà è finito, e sarà molto difficile utilizzare anche la Rete per far circolare le idee dell’opposizione, considerato il ferreo sistema di controllo e di censura predisposto da Pechino per evitare che il dissenso dilaghi.
In ogni caso, è chiara la sensazione del fastidio che il regime nutre nei confronti di ogni opposizione sociale, culturale e politica. E verso ogni tipo di espressione del dissenso.
Ma la vicenda di “Apple Daily” è soprattutto una lezione per l’Occidente e per i suoi popoli. Una lezione per le democrazie che a volte si fanno ammaliare dai leader forti e accettano gli sbreghi delle cosiddette democrature. Una lezione per le élites occidentali e per le loro posture nei confronti dei regimi autoritari, spesso condizionate da inconfessabili interessi economici. Per le opinioni pubbliche del mondo libero oramai assuefatte alla libertà assoluta e inclini a pensare che la libertà di pensiero sia riconosciuta in ogni angolo del globo. Per quanti guardano alla carta stampata con quel tanto di superiorità digitale che ne preconizza un tramonto sempre più vicino, ma che ci auguriamo tardi il più a lungo possibile. Per quelli che leggono poco e si informano meno. Per quanti considerano tutti i giornalisti dei pennivendoli. Per tutti quelli che giustamente si sono stracciate le vesti e hanno gridato “siamo tutti Charlie Hebdo” quando il giornale satirico francese fu vittima di un sanguinoso attacco da parte dei terroristi islamici. E infine per chi oggi non ha il coraggio di urlare “siamo tutti Apple Daily”.
In conclusione: Hong Kong sarà pure lontana, ma la Cina è vicina. Eccome se è vicina.