Il presidente americano, Joe Biden, ha deciso il ritiro dalle truppe dall’Afghanistan ponendo fine alla più lunga guerra americana, costata la vita a oltre 2400 soldati Usa. “Sono il quarto presidente americano a presiedere una presenza di truppe americane in Afghanistan. Due repubblicani. Due democratici. Non passerò questa responsabilità a un quinto”, sono state le parole del presidente che hanno accompagnato la decisione. Il ritiro sarà completato entro l’11 settembre, vent’anni dopo l’attentato alle Torri Gemelle che scatenò (7 ottobre 2001) l’operazione Enduring Freedom che abbatté il regime dei talebani. La decisione è stata avallata dagli alleati della Nato, ieri sera al termine di una riunione a Bruxelles dei ministri degli Esteri e della Difesa dell’Alleanza atlantica con il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. Nel quartier generale erano presenti il segretario di Stato americano, Antony Blinken, e il suo collega alla Difesa, Lloyd Austin. Alle riunioni ha partecipato il ministro Luigi Di Maio che ha parlato di una tabella di marcia per il ritorno a casa dei circa 800 soldati italiani. L’Italia è impegnata in Afghanistan dal 18 novembre 2001. Sono 52 i nostri soldati che hanno perso la vita. Inizio previsto del ritiro italiano il 1 maggio.
Sul tema il Sir ha intervistato Claudio Bertolotti, direttore di Start InSight e ricercatore senior per la “5+5 Defence Initiative”, è stato capo sezione contro-intelligence e sicurezza della Nato in Afghanistan.
Come giudica la decisione di ritirarsi dall’Afghanistan? Non c’è il rischio di lasciare il Paese preda di instabilità e insicurezza?
Io credo che questa sia una consapevolezza da parte della amministrazione Biden che rispecchia quella dei suoi predecessori. Sino ad oggi nessuno, forse solo Donald Trump, aveva avuto il coraggio di annunciare un vero ritiro della Missione statunitense e della Nato. Biden lo ha fatto forte delle decisioni prese da Trump e dell’appoggio dell’opinione pubblica statunitense.
L’aspetto molto triste, e al tempo stesso tragico, è che l’Afghanistan di fatto verrà abbandonato a se stesso perché, al di là delle belle parole sul supporto diplomatico e sulla continua vicinanza alle autorità governative di Kabul, l’assenza di uno strumento militare che garantisca la sicurezza fisica, aprirà le porte di fatto ai talebani e preparerà la strada per un’ulteriore fase di guerra civile che cova ormai da decenni in tutto il Paese.
Un ritiro che sembra fare rima con sconfitta ed evocare un nuovo Vietnam per gli Usa…
Un Vietnam molto più costoso di quello vero. Penso che sia molto amara anche la scelta della data, l’11 settembre, giorno dell’attentato alle Torri Gemelle, al quale si è tentato di rispondere con la famosa e infelice guerra al terrore e l’esportazione della democrazia.
Venti anni dopo, 11 settembre 2021, vedremo la conferma del fallimento di questa guerra.
Il ritiro è una sconfitta anche per la Nato…
Per l’Alleanza atlantica il ritiro è una scelta coerente perché assunta in modo unanime. Di fatto la Nato si era già disimpegnata dal campo di battaglia afgano con il passaggio (1 gennaio 2015) dalla missione Isaf a quella di tipo ‘no combat’ “Resolute Support”, incentrata sull’addestramento, consulenza e assistenza in favore delle Forze Armate e le Istituzioni afgane. La Nato con il ritiro deciso ieri formalizza questo disimpegno.
Che significato assume per l’Italia il ritiro dall’Afghanistan? Come ne esce il nostro Paese da questa missione che ci è costata oltre 50 vittime?
Da questa missione l’Italia riporta una grande esperienza di combattimento e di supporto che contribuisce a rafforzare lo strumento militare nazionale. Da un punto di vista delle relazioni internazionali,
l’Italia ha confermato un proprio ruolo attivo nella Nato non facendo mai mancare il proprio supporto anche in termini numerici.
Nel corso della storia delle missioni in Afghanistan, l’Italia è sempre stata tra i primi cinque contingenti. Il nostro Paese esce rafforzato sia dal punto di vista delle capacità militari che da quello della politica internazionale. Rimane il rammarico di aver dato un contributo importante a una esperienza fallimentare in termini di obiettivi prefissati.
Abbiamo partecipato ad una guerra persa con gli alleati con grande dispiacere e delusione rispetto a quello che avremmo voluto per un paese dilaniato come l’Afghanistan.
Il segretario generale della Nato, Jens Stoltemberg, ha affermato che “il ritiro non è la fine del nostro rapporto con l’Afghanistan ma l’inizio di un nuovo capitolo”. È d’accordo?
La Nato non potrà dare un contributo significativo alla sicurezza e alla stabilità dell’Afghanistan. Non lo ha potuto dare nel momento di massimo impegno quando aveva 140 mila truppe schierate sul terreno, non ci riuscirà adesso con il ritiro entro l’11 settembre prossimo.
Del ritiro potrebbe soffrirne anche la Cooperazione vista la mancanza di sicurezza sul terreno?
Dobbiamo considerare che prima di una possibile guerra civile ci sarà il coinvolgimento dei talebani in una qualche forma di governo di Unità nazionale. Così facendo i talebani garantiranno al paese di poter continuare a beneficiare degli aiuti internazionali. Questo sarà il compromesso che la comunità internazionale farà con il prossimo governo di transizione afgano.
Il dubbio è su quanto durerà questa fase transitoria perché molte sono le spinte anti talebane e molte sono le milizie in mano ai vecchi signori della guerra e nuovi signori della droga, ex mujaheddin, che hanno interesse a mantenere il controllo del territorio dove far fiorire i loro traffici illeciti.
Tra questi ci sono anche i talebani interessati a loro volta a controllare le aree di Helmand e Kandahar dove la produzione di oppiacei è al massimo in termini di produzione e di raffinazione dei prodotti.