Un altro muro per fermare i migranti. È quello che dovrebbe sorgere lungo i 380 chilometri del confine che divide Haiti e Repubblica Dominicana, secondo le intenzioni del presidente dominicano, Luis Abinader. L’annuncio – ma è tutto da vedere che alle intenzioni seguano i fatti – è stato dato qualche settimana fa, a fine febbraio, e sta suscitando un forte dibattito, in un contesto “storico” di rapporti complessi tra i due Paesi che insieme formano l’isola di Hispaniola, prima colonia del nuovo mondo fondata da Cristoforo Colombo. Haiti è francofono, la popolazione è in gran parte di origine afro, vive in drammatiche condizioni di sottosviluppo, le peggiori del Continente. La Repubblica Dominicana è ispanofona, occupa i due terzi dell’isola e le condizioni di vita sono senza dubbio migliori. Lo squilibrio tra i due Paesi ha portato, negli ultimi decenni, numerosi haitiani ad attraversare la frontiera, nonostante subiscano spesso discriminazioni. Si stima che oggi siano circa 500mila gli haitiani presenti in Repubblica Dominicana, su una popolazione di poco inferiore ai dieci milioni.
Ma molti potrebbero aggiungersi, già nelle prossime settimane, dato che ad Haiti la situazione politica, economica e sociale è ormai al collasso. “Il Paese è sull’orlo dell’esplosione; la vita quotidiana delle persone è costellata da morte, omicidi, impunità, insicurezza. Il malcontento è ovunque, in quasi tutti gli ambiti”, hanno scritto i vescovi haitiani nelle scorse settimane. A questo si aggiunge la paralisi politica, dopo che il contestatissimo presidente Jovenal Moise ha annunciato il rinvio delle elezioni, che erano previste nei primi mesi di quest’anno.
La Chiesa dominicana e l’accoglienza. “La costruzione di un muro non risolverebbe nulla. Ci sono vari esempi che lo dimostrano, come quello di Melilla, l’enclave spagnola nel continente africano – spiega al Sir mons. Faustino Burgos Brisman, segretario generale della Conferenza episcopale dominicana e vescovo ausiliare di Santo Domingo -. La mia idea è che sia trattato di un annuncio, da parte del presidente, per calmare i gruppi più nazionalisti, che fanno sempre più sentire la propria voce”. Certo, il fenomeno è complesso e per certi aspetti fuori controllo: “Haiti non possiede registri anagrafici aggiornati e di conseguenza per molti migranti è impossibile produrre documenti, In passato sono stati emessi dalle autorità falsi documenti d’identità”.
La Chiesa dominicana, prosegue il vescovo, ha sempre esortato all’accoglienza, fin da quando questo fenomeno migratorio ha preso il via, a metà del ventesimo secolo. All’epoca ad attirare i migranti furono le piantagioni di canna da zucchero e molti vivevano praticamente in condizioni di schiavitù: “Attualmente, ci incontriamo due volte all’anno con i confratelli vescovi di Haiti, anche per concordare le azioni rispetto al fenomeno migratorio. Alla frontiera e a Santo Domingo, storica destinazione degli haitiani, esistono innumerevoli opere e centri d’accoglienza. Promuoviamo corsi di spagnolo. Ogni diocesi dominicana ha una pastorale specifica per gli haitiani, solitamente coordinata da sacerdoti haitiani incardinati nelle nostre diocesi”.
Mons. Burgos non nasconde la sua inquietudine per quello che potrebbe succedere nelle prossime settimane: “Siamo molto preoccupati per quanto sta accadendo ad Haiti, ci sforziamo di dare tutto il sostegno necessario e al tempo stesso ci uniamo all’appello dei confratelli haitiani contro la violenza e per il rispetto dei diritti umani.
E le nostre braccia sono aperte all’accoglienza, come ci chiede papa Francesco”.
Questa proposta “è una vergogna”. Da Haiti arriva la voce di padre Jean Robert Dery, direttore del Servizio gesuita ai rifugiati (Sjr): “Io non conosco i motivi di questo annuncio rispetto al muro, ma so che si tratta di una vergogna”.
Nei prossimi giorni, secondo il gesuita, “è prevedibile che si apra una fase di migrazione ancora più incontrollata. Qui ad Haiti la situazione è tale per cui chi ha documenti se ne va, e anche chi non ne ha cerca di cambiare la sua vita. Il desiderio è quello di fuggire da qui, non importa come e non importa dove si andrà. Siamo al completo disastro, regna la violenza e mancano alimenti. In pratica, gli haitiani sono costretti a migrare”.
Anche in considerazione di tale realtà, quello che viene prefigurato è proprio “il muro della vergogna, frutto di 4-5 anni di campagna nazionalista. Provo vergogna anche come haitiano, perché nessuno nel mio Paese ha detto qualcosa, ha espresso una protesta. Non lo ha fatto il presidente Moise, che non ha così voluto proteggere la sua popolazione. E non lo ha fatto l’opposizione. Spero almeno che questa proposta susciti una presa di coscienza, che diventi un momento di svolta”.
Discriminazioni che vengono da lontano. Dall’altra parte della frontiera, in Repubblica Dominicana, opera Epifania Saint Charles, giovane di origini haitiane, coordinatrice del movimento ReconocidoRD Trabajo, articolazione del centro di riflessione e azione sociale Padre Luis Montalvo: “L’idea del muro parte da lontano, è l’espressione di un disprezzo e di una discriminazione storicamente molto forti – afferma –. In ogni caso, una costruzione di questo tipo creerebbe problemi a tutti e all’intera economia della zona frontaliera”.
Sulla situazione attuale, l’operatrice fa notare che nei primi mesi dell’anno non c’è stato un particolare aumento di flussi da Haiti. “Storicamente – aggiunge – i mesi con più ingressi sono aprile, giugno e dicembre. Ma è fondamentale la presenza alla frontiera di organizzazioni umanitarie, dell’Onu, dell’Acnur e di altre, per evitare violazioni di diritti umani. I gruppi più esposti sono gli irregolari tra i 40 e i 50 anni”.
Le situazioni di oggi, però – è lo sfogo di Saint Charles – non sono molti diverse da quelle di ieri. “Anche se siamo fratelli, abitanti di un’unica isola, soffriamo discriminazione e disprezzo da lungo tempo. Parlerei quasi di apartheid, di schiavitù moderna. L’unica cosa che viene chiesta agli haitiani è lavorare, lavorare e ancora lavorare. La speranza viene dal resto del mondo, speriamo che le nostre denunce trovino ascolto a livello internazionale”.
(*) giornalista de “La Vita del popolo”