La guerra in Siria compie 10 anni e sebbene sia sparita dalle prime pagine dei giornali continua a mietere vittime. Il conflitto infatti non è finito, si combatte in alcune zone del nord e del nordest siriano.
La diplomazia segna il passo mentre la popolazione sprofonda nella disperazione e nella più totale povertà, presa in mezzo tra conflitto, sanzioni e Covid-19. Il Sir ne ha parlato il card. Mario Zenari, da dodici anni nunzio apostolico in Siria.
Dopo 10 anni la Comunità internazionale non sembra riuscire a trovare una soluzione a questa guerra. È solo incapacità, impotenza o mancanza di volontà politica?
Recentemente l’inviato Speciale Onu per la Siria, Geir O. Pedersen, lo ha detto chiaramente: a meno che non ci sia una diplomazia internazionale animata da spirito costruttivo non si andrà avanti. Da sole le parti in conflitto non riescono, è muro contro muro. A mio avviso la guerra in Siria finirà quando la stessa terminerà all’interno del Consiglio di Sicurezza, l’organo massimo preposto alla pace e alla sicurezza mondiale. Ricordo in questi anni che mentre sentivo le bombe cadere nelle zone intorno a Damasco, come il Ghouta, vedevo in diretta al Consiglio di Sicurezza un altro conflitto, aspro, tra i Paesi membri. E finché ci saranno diatribe e divisioni in seno al Consiglio, qui non ci sarà pace. Devo, tuttavia, anche ricordare che ci sono stati anche dei momenti, non molti, in cui sono avvenuti dei miracoli e che ci inducono a sperare…
A cosa si riferisce?
Penso alla Giornata di digiuno e preghiera per la pace in Siria e Medio Oriente del 7 settembre 2013, indetta da Papa Francesco. Eravamo in un momento molto critico del conflitto dopo un attacco chimico compiuto pochi giorni prima alle porte di Damasco. In quella occasione Putin e Obama presero in mano le redini della situazione e trovarono un accordo sull’arsenale chimico siriano. Fu un successo. Un altro momento fu nel 2015 quando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite votò la Risoluzione 2254 che tracciava la road map del processo di pace per la Siria. Questo per dire che se la Comunità internazionale è unita i risultati arrivano anche se insperati.
Molti dei fallimenti del Consiglio di Sicurezza forse stanno nei veti incrociati delle Grandi Potenze che siedono al suo interno?
Sì. La situazione sul terreno si sbloccherà solo se ci sarà un input forte della Comunità internazionale perché la Road map della Risoluzione 2254 venga applicata. Intanto chi sta facendo le spese di questo muro contro muro è la popolazione sempre più povera e disperata.
Al conflitto militare si è aggiunta la guerra della povertà e, da un anno a questa parte, il Covid-19. Un impatto triplice sui siriani. Come sta reagendo la popolazione?
Non ne può più. Tanti sacerdoti e presuli con cui mi trovo spesso a parlare mi raccontano che oramai le persone sono arrivate a rubare anche la poca biancheria messa al sole ad asciugare, rubano le batterie delle auto e dei mezzi agricoli per produrre un po’ di energia. L’enorme svalutazione della lira siriana sta impoverendo la gente ogni giorno che passa. La situazione è insostenibile e bisogna trovare una soluzione dopo 10 anni di guerra.
Parlare oggi di ricostruzione ha senso?
Io sono arrivato in Siria 12 anni fa, e proprio in questi giorni. L’immagine del Paese di allora rispetto a quella di oggi non è assolutamente paragonabile. Oggi la Siria è come quel povero viandante della parabola del buon Samaritano, picchiato, derubato e lasciato a terra morente dai ladroni. La Siria oggi è umiliata dai ladroni che l’hanno saccheggiata. Provvidenziale è l’aiuto di tanti samaritani, singoli benefattori come anche agenzie umanitarie e organizzazioni internazionali che offrono aiuto al popolo siriano. Ma sono aiuti di emergenza per la Siria moribonda che deve essere rimessa in piedi, deve tornare ad avere la sua dignità. Metterla in piedi significa ricostruire: ricostruire il tessuto sociale e le infrastrutture come scuole, strade, case, ospedali, industrie. Purtroppo è tutto bloccato anche dalla corruzione e dalle sanzioni.
Rimuovere le sanzioni, come i vescovi siriani chiedono da tempo, e con loro anche la Caritas Internationalis e Aiuto alla Chiesa che soffre, può servire a ridare un po’ di dignità alla popolazione siriana umiliata?
Abbiamo cercato di fare dei passi in questa direzione. Le sanzioni dell’Ue sono differenti da quelle imposte dagli Usa, entrate in vigore a giugno dello scorso anno, note come Caesar Syria Civilian Protection Act. Queste sanzioni, secondo i responsabili, non toccano gli aiuti umanitari ed è vero. Ma c’è tutto un meccanismo che poi li inceppa; gente che interpreta in maniera restrittiva le sanzioni, altri che hanno paura di rischiare e non si fidano di fare transazioni finanziarie. Le sanzioni non toccano gli aiuti umanitari ma in pratica pongono molti ostacoli. Se i contendenti invece di fare muro contro muro, come dicevo poco fa, facessero qualche passo di buona volontà le sanzioni si sbloccherebbero. Delle sanzioni ha parlato anche il Papa tempo fa facendo riferimento alla pandemia. Un alleggerimento delle sanzioni permetterebbe agli Stati di avere risorse per fronteggiarla e per curare le loro popolazioni. In Siria influisce molto l’embargo petrolifero.
Dieci anni di guerra alimentata oltre che da interferenze e ingerenze di attori regionali e internazionali anche da forniture di armi. La domanda di Papa Francesco, ‘chi vende le armi ai terroristi…?’, è di grande attualità specialmente per la Siria ma resta inevasa…
Tutte le armi in mano, anche qui, ai terroristi, all’Isis, chiamano delle responsabilità che prima o poi dovranno essere accertate. Poco lontano dalla Siria c’era un fiorente mercato dove si poteva liberamente acquistare armi automatiche, come mitragliatrici, che hanno combinato disastri seminando ovunque morte.
Eminenza, dal 2017 lei si è fatto promotore del progetto “Ospedali aperti”, patrocinato dal Dicastero per lo sviluppo umano integrale e portato avanti con Avsi, insieme a Cei, Cor Unum, Papal Foundation, Fondazione Gemelli e altri. L’obiettivo è puntare al potenziamento di tre ospedali cattolici non profit, quelli italiano e francese a Damasco e il St. Louis a Aleppo, per garantire le cure a tutte le vittime della guerra, quelle più povere. Può tracciare un bilancio di questo triennio?
È un progetto che dipende da tanti buoni samaritani e che cerca di dare una risposta concreta al bisogno di cure dei siriani malati poveri, in maggioranza musulmani. Le stime parlano del 90% della popolazione siriana che vive sotto la soglia di povertà. A fine 2020 i pazienti assistiti sono stati oltre 40mila, l’obiettivo di 50mila è stato impedito dal Covid. Ma non ci fermiamo e continueremo a curare tutti coloro che hanno bisogno. Per questo confidiamo nella generosità di tanti ‘samaritani’. Vorrei aggiungere una cosa…
Che cosa?
In Siria la natura geme. Pensiamo a quanti esplosivi in 10 anni sono caduti sul suolo siriano contaminandone la terra, l’aria e le acque. Le conseguenze di tutto questo sarà a lungo termine anche se i primi effetti si cominciano a vedere già ora con l’incremento di patologie legate al cancro, anche nei bambini. Non sono un medico per poterlo dire ma certamente questi esplosivi avranno una scia di malattie. La guerra lascerà generazioni di persone psicologicamente provate da bombe e da tanta violenza. Bisognerà ricostruire anche gli animi di questa povera gente. Per questo gli ospedali vanno ricostruiti e riaperti. La metà dei nosocomi siriani sono stati messi fuori uso dalla guerra. Il progetto ‘Ospedali aperti’ è significativo perché assicurando cure ai corpi feriti e malati, dando attenzione alla persona, proviamo a ricucire il senso di comunità che la guerra ha frammentato e distrutto. La riconoscenza delle persone curate è enorme. Lo dimostrano anche i tantissimi progetti portati avanti dalla chiesa locale, nelle sue varie espressioni, che mai come adesso incarna quell’immagine di ‘ospedale da campo’ richiamata spesso da Papa Francesco.
Come ha visto la visita di Papa Francesco in Iraq? Tanti messaggi del Pontefice sembravano diretti anche alla Siria…
È stata commovente, un qualcosa di unico e di nuovo. Vedere come queste piccole comunità si erano preparate ad accogliere il Pontefice, come il Papa ha vissuto quei momenti, è stata una grande gioia. Credo che Papa Francesco sia stato ispirato per questo viaggio nella Terra di Abramo.