“Il 15 marzo sono 10 anni dallo scoppio della guerra. E tutto lascia presagire che il futuro sarà peggiore del presente perché non sappiamo come andrà a finire. Il nostro presente ci parla di povertà estrema, di fame, di abusi, di mancanza di ogni servizio di base, sanitario in particolare. Il futuro è ancora più buio e la gente è disperata perché non sa più come andare avanti. Qualche sera fa, mentre rientravo a casa, ho visto delle persone cercare avanzi di cibo in mezzo alla spazzatura. Una scena che non avevo mai visto prima, nemmeno quando eravamo sotto le bombe”.
A parlare al Sir è il francescano della Custodia di Terra Santa, padre Hanna Jallouf, parroco latino di Knaye, uno dei tre villaggi cristiani della Valle dell’Oronte, nel nordovest del paese, provincia di Idlib, ancora sotto controllo dei jihadisti di Hayat Tahrir al-Sham (Hts).
La guerra non è finita, appello del Papa. “La guerra non è finita è solo scomparsa dai radar dei media internazionali – denuncia padre Hanna -. L’unica voce che non smette mai di ricordare la Siria è quella di Papa Francesco”. L’ultimo appello è di ieri, dopo la preghiera dell’Angelus: “Rinnovo il mio accorato appello alle parti in conflitto – ha detto Papa Francesco – affinché manifestino segni di buona volontà, così che possa aprirsi uno squarcio di speranza per la popolazione stremata” in particolare “per i più vulnerabili, come i bambini, le donne e le persone anziane”.
“Auspico un deciso e rinnovato impegno, costruttivo e solidale, della comunità internazionale, in modo che, deposte le armi, si possa ricucire il tessuto sociale e avviare la ricostruzione e la ripresa economica”.
Nel governatorato di Idlib, continua il francescano, “le offensive dell’esercito siriano e delle milizie alleate paramilitari sembrano essersi, per ora, placate mentre forti tensioni esistono tra le forze ribelli”, una sorta di ‘tutti contro tutti’ per accaparrarsi gli aiuti di Ankara che sono gestiti quasi esclusivamente da Hts. Tensioni anche ad Aleppo e nelle aree nord-orientali in particolare, ad Hasakah, Qamishli e al-Shahba, dove a fronteggiarsi sono i gruppi affiliati al governo di Damasco e le forze curde della ‘Syrian Democratic Forces’ (Sdf) alleanza etnico-religiosa composta da curdi, arabi, turkmeni, armeni e ceceni, che ha il suo braccio armato nelle Unità di Protezione Popolare curde (Ypg). Il governatorato di Hasakah è strategico perché è ricco di colture agricole come grano e legumi e soprattutto di giacimenti petroliferi che soddisfano la gran parte del fabbisogno siriano.
Speranza a dura prova. “Le strade e le vie di comunicazione sono bloccate così chi ha bisogno di recarsi ad Aleppo o Damasco per farsi curare gravi patologie non può uscire. È un disastro totale.
Qui a Idlib – ricorda padre Hanna – ci sono oltre un milione di persone sotto le tende. Al freddo, sotto la pioggia, affamate, e nessuno pensa a loro. Il costo della vita aumenta ogni giorno di più e sopravvivere è un’impresa.
L’introduzione della lira turca ha reso la popolazione ancora più povera. Il suo valore cambia in continuazione e ciò permette ai cambi valuta di approfittare della povera gente. Oggi uno stipendio mensile di un impiegato si aggira sull’equivalente di meno di 20 dollari. La gente non ce la fa ad andare avanti e a volte si trova a rubare. Così crescono malavita e droga. Fortunatamente i contagi da Covid sono molto diminuiti. Non è la pandemia a preoccupare i siriani oggi ma la fame e la povertà – sottolinea il francescano -. Tutto questo accade nel silenzio della comunità internazionale e di Paesi Occidentali che hanno imposto sanzioni che non vanno a colpire il Governo ma il popolo che così passa intere giornate a fare la fila per trovare pane, medicine, gasolio per scaldarsi e cucinare, carburante”. Per regalare un sorriso alla sua piccola comunità (circa 1000 fedeli sparsi tra Knaye, Yacoubieh e Gidaideh, a circa 50 km da Idlib), padre Hanna e il suo confratello, padre Louai Bsharat, organizzano delle piccole feste, delle recite teatrali, dei pranzi con le famiglie, ma sempre “nel chiuso, facendo attenzione a non mostrare simboli e segni cristiani perché sono vietati dai jihadisti. Hanno rimosso anche le croci sui campanili”.
Sanzioni. Da anni i vescovi siriani chiedono la fine dell’embargo e delle sanzioni. Un appello raccolto anche da Caritas Internationalis e da Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs). Pressante la richiesta a Usa e Ue, in particolare, di “applicare il quadro normativo internazionale esistente che consente deroghe all’embargo per ragioni umanitarie”. “Nonostante le sanzioni prevedano delle eccezioni per l’invio di fondi per aiuti umanitari, queste ultime non funzionano” denuncia Thomas Heine-Geldern, presidente esecutivo di Acs Internazionale. Sia il codice bancario europeo ‘Iban’ e l’americano ‘Swift’, afferma, “bloccano i trasferimenti contenenti riferimenti alla Siria e a qualsivoglia città della nazione, per cui diventa quasi impossibile per le organizzazioni caritative trasferire fondi con finalità umanitarie”. Acs in questi anni ha devoluto oltre 40 milioni di euro alla popolazione civile della Siria, in particolare alla minoranza cristiana. Il 10 marzo scorso, rivolgendosi al Consiglio dei diritti umani a Ginevra, Caritas Internationalis ha chiesto al governo di Usa e all’Ue di “rimuovere le sanzioni che impediscono ai siriani di accedere ai bisogni e ai servizi di prima necessità e alle forniture sanitarie e stanno inibendo la ricostruzione delle infrastrutture di base”. Solo nel 2020 la Caritas ha sostenuto circa 830.000 siriani in tutto il Medio Oriente, fornendo alloggi, cibo, istruzione, salute, protezione, mezzi di sussistenza, acqua e servizi igienici.
Il pane della sofferenza. Da Knaye ad Aleppo, la situazione è sempre quella di “povertà estrema” che fa dire a padre Ibrahim Alsabagh, parroco latino della città:
“La sofferenza è il nostro pane quotidiano da dieci anni”.
All’inizio della guerra, dieci anni fa, la popolazione della Siria era giovane, “un siriano su tre aveva meno di 14 anni. Bambini e ragazzi sono le prime vittime di questa crisi: i giovani cresciuti nel conflitto, sfollati a milioni, privati di un’istruzione degna di questa nome. I bambini crescono in un clima di tristezza, insicurezza e mancanza di fiducia per la continua esposizione a violenza, shock e traumi”. La Chiesa locale fa quel che può nella consapevolezza che “questa sofferenza non è eterna, anche se non sappiamo quando finirà”. Una speranza che vale anche per tanti vescovi e sacerdoti rapiti in questi anni, come padre Paolo dall’Oglio, dei quali non si sa nulla.
Bambini, prime vittime. I numeri delle agenzie umanitarie, come Unicef e Save the Children, confermano l’impatto di 10 anni di guerra sui più piccoli e le famiglie del Paese mediorientale dove circa il 90% dei bambini ha bisogno di assistenza umanitaria: 12.000 bambini sono stati uccisi o feriti, una media di più di tre al giorno, più di 5.700 – alcuni anche di 7 anni – sono stati reclutati nei combattimenti, 2 milioni sono tagliati fuori dalla scuola e altri 1,3 milioni rischiano di perdere l’istruzione, 6,2 milioni di bambini rischiano di restare senza cibo. Ne deriva che oltre mezzo milione di bambini sotto i 5 anni in Siria soffrono di ritardi nello sviluppo a causa della malnutrizione cronica.
Secondo l’agenzia Onu World food programme (Wfp) oggi 12,4 milioni di siriani, circa il 60% della popolazione, soffre la fame e l’insicurezza alimentare, il doppio rispetto al 2018. E’ anche raddoppiato il numero di quanti non potrebbero sopravvivere senza assistenza alimentare, arrivando a 1,3 milioni di persone. Solo nell’ultimo anno, circa 4,5 milioni di persone sono precipitate nell’insicurezza alimentare e i prezzi del cibo sono saliti del 200%. Per le famiglie la vita non è mai stata così dura nemmeno negli anni peggiori del conflitto. Anche il sistema sanitario è al collasso: mancano ospedali, strutture sanitarie attrezzate, farmaci, bombole di ossigeno e dispositivi di protezione individuale per il Covid-19. Quasi due terzi di medici e infermieri ha lasciato in questi anni il Paese. Negli ultimi 5 anni l’aspettativa di vita in Siria si è ridotta di 15 anni per gli uomini e 10 per le donne.
Né vincitori, né vinti. “I bisogni umanitari non possono aspettare. La comunità internazionale dovrebbe fare ogni sforzo per portare la pace in Siria e sollecitare sostegno per i bambini. Non ci sono vincitori in questa guerra e la perdita più grande è per i bambini della Siria. È ora – chiede con forza il direttore generale dell’Unicef, Henrietta Fore – che le parti in conflitto abbassino le armi e avviino un tavolo di negoziazione. Pace e diplomazia sono l’unica strada per uscire da questo abisso”. “Un incubo” per il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres.