(da New York) Quello celebrato ieri dagli Stati Uniti è stato un anniversario doloroso e cupo. Ha i numeri di 529.079 morti, di 29.150.069 contagiati e di circa 10 milioni di lavori persi. Allo stesso tempo, l’11 marzo 2021 ha celebrato anche la possibilità della rinascita con i numeri dei guariti, con quelli dei vaccini distribuiti oltre 100 milioni e delle persone che li hanno ricevuti, oltre 90 milioni. Si celebrano i 1.900 miliardi di dollari di aiuti all’economia, alle imprese, alle città votati dal Congresso anche se in modo non bipartisan: la lacerazione infatti non cessa di essere presente anche di fronte alla tragedia del Paese. Una ricorrenza celebrata con le scuole che riaprono in California e l’inaugurazione di nuove fabbriche le cui produzioni sono state convertite per rispondere alle emergenze mediche. Ieri sera alle 20, ora locale di Washington DC, il presidente americano Joe Biden ha parlato al Paese, alla chiusura di un anno che ha scosso come non mai l’America. Nelle sue parole il ricordo dei sacrifici fatti dal popolo americano e le gravi perdite subite dalle comunità e dalle famiglie, ma anche il ruolo che ogni americano ha giocato e dovrà giocare per sconfiggere il virus e tornare alla normalità.
Era l’11 marzo del 2020 quando l’Organizzazione mondiale della sanità dichiarava il Covid una pandemia e gli Usa cominciavano già a contare ricoveri e morti. Impotenti di fronte ad un virus sconosciuto, mentre a fatica si chiudevano uffici, chiese, templi, teatri, banche, università e le metropolitane si spopolavano diventando nuovo rifugio di tanti senza tetto. Il 27 marzo 2020 la Chiesa americana perdeva il suo primo sacerdote. Padre Jorge Ortiz-Garay, 49 anni, parroco di Santa Brigida, nella diocesi di Brooklyn moriva nella solitudine di una corsia d’ospedale. E intanto centinaia di corpi venivano depositati in camion frigorifero fuori dai presidi sanitari perché gli obitori non riuscivano a contenerli. Gabri Brambrick è medico a New York e ricorda molto bene l’inizio della pandemia vissuto in un ospedale in New Jersey. “Vedevamo i numeri devastanti della Spagna, dell’Italia e sapevamo bene che questo tsunami stava arrivando anche da noi, ma non sapevamo quanto e come ci avrebbe colpiti”. Poi arriva la telefonata di una delle figlie di ritorno dall’università chiusa a seguito di numerosi contagi. Ha la febbre. È Covid. “In mezzo al caos di pazienti che arrivavano c’era anche mia figlia e sulla mia pelle ho vissuto la devastazione di quel momento. Avevamo pochissime conoscenze, l’incertezza era enorme e ho capito che in questa tragedia mi veniva richiesta una la vita. Ogni volta che entravo nel mio ospedale sapevo che avrei potuto morire. Le prime 10 settimane del Covid, negli ospedali di New York e del New Jersey si è vissuto come in una zona di guerra”.
Per Jeffrey e Ivana, l’inizio della pandemia, la quarantena forzata, il lavoro da casa ha significato riscoprire i tempi e i ritmi della famiglia. Lei insegnante, lui manager di un’azienda specializzata in sicurezza, due bambini, erano sempre in corsa dietro ad attività extra: piscina, calcio, canto. “La pandemia ci ha disconnessi dal mondo fuori, ma ci ha riconnessi come famiglia. Abbiamo imparato insieme a cucinare, fare le faccende domestiche, dipingere”, spiega Ivana quasi nostalgica di quelle settimane. Jeffrey smessa la cravatta ha potuto dedicarsi al bricolage e a rimettere in sesto pezzi della casa che richiedevano nuova cura. Poi per Ivana è arrivato il licenziamento e in dicembre anche il contagio. “Mi ha assalita la paura. La paura di non farcela. Il successo del giorno era svegliarsi e vedere che i respiri non erano diventati più affannosi, che la febbre non era più alta, che la tosse era moderata. Abbiamo superato insieme anche la malattia”. Ivana confida che la preghiera e la fede sono state il suo appiglio, mentre tutti i programmi, uno dopo l’altro crollavano. Il lavoro è tornato dopo un bel po’ di mesi e lo schermo è stato l’unico strumento attraverso cui prendersi cura dei suoi studenti, alcuni dei quali erano soli a casa perché i genitori non potevano permettersi di non lavorare; mentre altri erano soli perché i matrimoni non hanno retto alla quarantena forzata.
“Una delle lezioni positive apprese durante quest’anno è stato il potere della famiglia umana, del lavoro comune come comunità scientifica. Ci siamo messi insieme, con i colleghi di tutto il mondo, per capire di più questo virus, per scambiarci dati sui pazienti. Siamo stati in grado di produrre una maggiore conoscenza. Ci siamo uniti per il bene dell’umanità”.La sintesi del 2020, fatta dalla dottoressa Bambrick contiene l’altruismo dei colleghi, le ore infinite di lavoro, ma anche i disagi di una comunicazione sul virus falsata dai social media e dalla politica che ha creato non pochi problemi anche nelle corsie. “Serve una regolamentazione dei social, perché abbiamo dovuto combattere con informazioni non verificate, teorie folli, opinioni che hanno danneggiato la nostra capacità di controllo del virus. Sui social si possono esprimere frustrazioni, idee, ma la scienza non può essere considerata un’opinione, ha dati, parla su fatti. Questa informazione non seria e non verificata ci ha molto ferito“.