Deforestazione, riscaldamento globale, nuovi virus: dall’Amazzonia la prossima pandemia?

L’ultimo a far parlare di sé è stato, qualche settimana fa, l’arenavirus che provoca la “febbre emorragica del Chapare”, nel cuore della Bolivia. Qualcuno, con macabra ironia, lo ha subito ribattezzato il virus Evola, cogliendo la coincidenza tra alcuni nuovi casi e il ritorno dell’ex presidente Evo Morales nella sua roccaforte, il Chapare appunto. Provocato da un tipo di ratto, il virus può propagarsi tra uomo e uomo e ha provocato all’interno della Bolivia qualche circoscritta vittima, a partire dallo scorso anno. Questo arenavirus (che in realtà, provocando una febbre emorragica, ha qualche punto di contatto con l’Ebola) è solo di uno dei diversi “candidati” a essere “il prossimo”. Cioè, il prossimo virus a provocare un’epidemia su larga scala. Su una cosa, infatti, molti esperti convengono: se, come appare plausibile, il mondo in futuro sarà interessato da altre epidemie o addirittura pandemie, è possibile, se non probabile, che esse possano provenire non solo dalla Cina, ma anche dall’Amazzonia

L’ultimo a far parlare di sé è stato, qualche settimana fa, l’arenavirus che provoca la “febbre emorragica del Chapare”, nel cuore della Bolivia. Qualcuno, con macabra ironia, lo ha subito ribattezzato il virus Evola, cogliendo la coincidenza tra alcuni nuovi casi e il ritorno dell’ex presidente Evo Morales nella sua roccaforte, il Chapare appunto. Provocato da un tipo di ratto, il virus può propagarsi tra uomo e uomo e ha provocato all’interno della Bolivia qualche circoscritta vittima, a partire dallo scorso anno. Questo arenavirus (che in realtà, provocando una febbre emorragica, ha qualche punto di contatto con l’Ebola) è solo di uno dei diversi “candidati” a essere “il prossimo”. Cioè, il prossimo virus a provocare un’epidemia su larga scala. Su una cosa, infatti, molti esperti convengono: se, come appare plausibile, il mondo in futuro sarà interessato da altre epidemie o addirittura pandemie, è possibile, se non probabile, che esse possano provenire non solo dalla Cina, ma anche dall’Amazzonia.

Si tratta di un’ipotesi. Che trova, però, ampio credito tra gli studiosi, per una lunga serie di motivi. Ne ha parlato in modo esplicito, qualche settimana fa, il premio Nobel per la Pace del 2007, lo scienziato brasiliano Carlos Alfonso Nobre, durante il seminario virtuale sul Covid-19 e l’America Latina promosso dal Vaticano e dal Consiglio episcopale latinoamericano. Lo scienziato ha accennato a una serie di virus conosciuti dagli scienziati, ma sconosciuti ai più, nati in Amazzonia, che potrebbero diffondersi in modo allarmante. Si va dalle febbri Oropouche, Tacaiuma Mayaro e Mucambo, veicolate da zanzare, fino alla già citata febbre emorragica del Chapare. Certo, al momento sono “fuocherelli”, non “incendi” globali. Ma il rischio non è da sottovalutare. Se non altro perché, restando alla metafora, proprio in Amazzonia abbiamo visto come piccoli roghi speso finiscano con il provocare incendi devastanti.

Ipotesi inquietanti. Insomma: la prossima pandemia avrà l’Amazzonia come incubatore? E, nel caso. Per quale motivo? Il professor Luiz Marques, esperto di crisi ambientali e docente all’Università Statale di Campinas, autore di vari articoli sul tema, ne è convinto: “Il riscaldamento globale, la deforestazione, la distruzione degli habitat selvaggi, l’addomesticamento e l’allevamento su scala industriale di uccelli e mammiferi sono armi puntate contro la salute globale, distruggono l’equilibrio evolutivo tra le specie facilitando le condizioni per le prossime zoonosi”, il passaggio, cioè, di malattie da specie animali a uomo e viceversa.

“Pensiamo alle tantissime specie di pipistrelli che vivono in Amazzonia ed entrano in contatto con i bovini dei grandi allevamenti, tutti omogenei dal punto di vista genetico. Anche in Cina, dove sono nate le ultime pandemie o epidemie su larga scala, c’è stata una forte deforestazione. Un meccanismo che è stato studiato a fondo dagli scienziati, è ben conosciuto. Finora, probabilmente, la Cina è stata maggiormente interessata perché più densamente abitata, qui invece le persone sono più isolate. Ma penso che un esito di questo tipo sia prima o poi inevitabile anche per l’Amazzonia, dove sono tantissime, già ora, le malattie endemiche”.

Un’ulteriore analisi arriva dal professor David Lapola, ecologo, docente anch’egli all’Università Statale di Campinas: “Ci sono alcuni ingredienti che possono da cui può derivare un’epidemia come Sars-Cov1 e 2. Essi sono: la presenza di un pool di virus; squilibri ambientali; alta densità di popolazione umana; contatto molto stretto (per esempio abitudini alimentari) con la fauna selvatica. In Amazzonia, i primi due elementi sono molto presenti, poiché è già noto attraverso studi scientifici che esiste un enorme numero di diversi tipi di coronavirus e altri tipi di virus che si trovano naturalmente nell’ecosistema forestale. Ma anche il disturbo in questo ecosistema è in aumento, esso tende a spezzare le catene alimentari e aumenta la possibilità del cosiddetto ‘spillover’, il passaggio alle popolazioni umane. Quello che penso abbia contribuito a non far comparire epidemie o pandemie in Amazzonia è una bassa densità di popolazione e abitudini alimentari che non sono così fortemente vincolate alla fauna dei mammiferi selvatici: c’è molto consumo di pesce e di proteine che vengono da fuori, per esempio il pollo”.

Un’eventuale pandemia di matrice amazzonica, per il docente, “è un’ipotesi, ma con un grande grado di incertezza su quando e come può diventare reale. È del tutto possibile che questo ‘spillover’ di virus e altri agenti patogeni selvatici si sia già verificato più volte nelle popolazioni amazzoniche. Ma il fatto che queste popolazioni siano più isolate, ha reso queste malattie limitate ai piccoli centri. Certamente, già ora abbiamo avuto problemi di tracciamento e sotto-segnalazione del Covid-19. Immaginiamo cosa potrebbe accadere con malattie sconosciute”.

Fermare deforestazione e sfruttamento. Il principio di prudenza è quello che, comunque, dovrebbe essere da guida. “Abbiamo bisogno di un rapporto più armonioso con la foresta – conclude il prof. Lapola -. Fermare la deforestazione e il degrado delle foreste e cercare di mitigare il cambiamento climatico globale. Si noti che, anche se fermassimo completamente la deforestazione ora, la foresta sarebbe ancora soggetta al cambiamento climatico globale, che rappresenta anche un rischio in termini di disturbo ambientale e che può influenzare questi ‘spillover’ di agenti patogeni dalle popolazioni di animali selvatici all’uomo”.

Una possibile pandemia, in ogni caso – prosegue il prof. Marques -, sarebbe solo la punta dell’iceberg di fenomeni già ora visibili a causa della deforestazione e del riscaldamento globale: “L’insicurezza alimentare aumenta anche in Sudamerica, non solo in Africa. La termoregolazione al limite, c’è ogni estate nel mondo un aumento di decessi tra gli anziani. Quanto ai virus, molti non sono in grado di sopravvivere sopra i 37 gradi, ma quando si adatteranno si diffonderanno. E un sistema alimentare globalizzato ci rende più vulnerabili ed esposti”.

(*) giornalista de “La vita del popolo”

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