“Se la situazione nel Tigray sfugge di mano si rischia un disastro. Se non si trova una stabilizzazione rapida la crisi può ripercuotersi nei Paesi vicini: Eritrea, Sudan, Somalia”. È molto preoccupato Mario Raffaelli, presidente di Amref Health Italia, parlando al Sir delle operazioni militari in corso in Etiopia, nella regione nord settentrionale del Tigray, che rischia di trasformarsi in guerra civile, destabilizzando tutta l’area del Corno d’Africa. L’Etiopia, con i suoi 110 milioni di abitanti, è considerata la super potenza che garantisce la stabilità della regione. Invece il 4 novembre il primo ministro etiope Abiy Ahmed – premio Nobel per la pace 2019 – ha dichiarato “guerra” al partito al governo nella regione settentrionale del Tigray, il Fronte di liberazione popolare del Tigray (Tplf). Il governo di Addis Abeba accusa il Tplf di aver attaccato una base militare federale per prendere armi e materiale bellico. Il primo ministro ha mobilitato l’esercito in quella che definisce una “operazione di polizia”. Nel Tigray, dove vivono 9 milioni di persone con una forte identità etnica, sono già iniziati i bombardamenti, nel capoluogo Makallé sono interrotte le comunicazioni telefoniche e i collegamenti internet, chiusi gli sportelli bancari. Di fatto la regione è isolata ed è difficile avere notizie certe. Alcune fonti riferiscono di centinaia di morti e persone in fuga verso il Sudan, tra cui militari che avrebbero lasciato le armi. Le forze armate nel Tigray, zona di frontiera anche con l’Eritrea, sono almeno 250.000, ben addestrate e in possesso di potente materiale bellico.
Amref Health Africa, grande organizzazione umanitaria che opera in ambito sanitario in diversi Paesi africani, anche con gli aerei e il personale medico dei famosi “Flying doctors”, sta seguendo giorno dopo giorno la crisi tramite l’ufficio etiopico ad Addis Abeba e l’ufficio centrale di Nairobi. Nel caso il conflitto degeneri – ma la speranza è che la crisi si risolva rapidamente attraverso il dialogo – sono pronti a prestare aiuto. Papa Francesco è stato il primo a lanciare un appello per la pace in Etiopia durante l’Angelus di domenica scorsa, seguito poi dai vertici dell’Onu, dell’Ue, dell’Unione africana. In un Paese dove il 47% della popolazione è musulmana i vescovi cattolici etiopici hanno lanciato un avvertimento: “Se i fratelli si uccidono, l’Etiopia non guadagnerà nulla. Invece ciò porterà il Paese al fallimento e non gioverà a nessuno”. Ecco l’analisi di Raffaelli, profondo conoscitore della regione, visto il suo passato incarico di inviato speciale del governo italiano per il Corno d’Africa.
Si rischia davvero una escalation del conflitto in Etiopia?
Potenzialmente sì. Perché la transizione da un sistema federale con grande capacità di controllo da parte della leadership che ha governato l’Etiopia per 27 anni, caratterizzato dal dominio dell’etnia tigrina, che rappresenta solo il 6% della popolazione etiopica, è un passaggio difficile. Nel momento in cui Abiy ha liberalizzato il sistema politico, consentito il rientro in patria degli esiliati e fatto accordi con gruppi che contestavano il potere nelle altre regioni federali, ha aperto la strada a rivendicazioni tenute sotto controllo durante il regime precedente. Si è aperta una serie di contenziosi con scontri etnici e decine e centinaia di morti tra Amhara, Oromo e altre etnie, anche di recente.
Uno scenario molto complicato, quindi.
Sì, è un puzzle complesso. Il primo ministro Abiy, metà Oromo e metà Amhara, è stato contestato all’interno della sua stessa etnia, trascurata per anni. Dopo il suo arrivo al potere ha fatto alcune azioni mirate togliendo alcuni capi tigrini nell’intelligence nell’esercito. Il punto di svolta è stato quando Abiy ha creato il partito unico, il Partito del Progresso: i tigrini non hanno partecipato e lì sono iniziate le tensioni. Il punto finale è stato il rinvio delle elezioni, a causa del Covid-19, previste ad agosto 2020. Una scelta contestata dai tigrini, che volevano tenere le loro elezioni. Il primo ministro ha reagito dichiarandoli fuori legge dal 4 ottobre e prendendo posizioni molto dure: ad esempio non ha trasferito il budget federale al governo regionale, dichiarandolo illegittimo.
Per i tigrini, che si sono visti sottrarre le risorse, questo è stato considerato un atto di guerra.
Nel frattempo si è cominciato a parlare di secessione, cosa prevista nella Costituzione federale, anche se nessuno ha mai utilizzato questo strumento. Da qui si è andati all’escalation della crisi.
Perché il conflitto nel Tigray è così pericoloso?
È un conflitto potenzialmente esplosivo perché il Tigray è una regione con forte identità etnica.
La popolazione si è sentita emarginata e perseguitata dal potere per le colpe di alcuni. Inoltre, è sede di una quantità di armi pesanti e forze militari legate alla guerra con l’Eritrea. Esistono circa 250.000 tra miliziani e forze di polizia tigrine locali. Anche l’accordo di pace tra Etiopia ed Eritrea è stato interpretato negativamente dai tigrini, perché c’è animosità evidente tra le due componenti tigrine al di qua e al di là della frontiera, per via della sanguinosa guerra della fine degli anni ’90. Il primo ministro definisce questa azione militare una operazione di polizia ma è un po’ un azzardo, perché conta sul fatto che la popolazione tigrina accetti che il proprio governo venga sostituito e scelto dal potere centrale.
Arrivano notizie dal Tigray o dalle vostri sedi in Etiopia?
Al momento è difficile avere notizie perché hanno interrotto le linee telefoniche ed internet ma si parla di
bombardamenti etiopici sui depositi di armi, di centinaia di morti e gente che sta fuggendo in Sudan.
Sono stati chiusi gli sportelli bancari del Tigray, quindi è un assedio duro, che può coinvolgere anche i Paesi vicini, perché ci sono fazioni pro o contro i tigrini o il governo centrale. Se questa situazione scappa di mano provoca un disastro. Se non si trova una stabilizzazione rapida la crisi può ripercuotersi nei Paesi vicini: Eritrea, Sudan, Somalia.
La comunità internazionale come ha reagito?
Sia l’Unione africana sia la Ue sia l’Onu hanno fatto dichiarazioni preoccupate, fornendo supporto al dialogo ma Abiy lo ha respinto dicendo che è problema interno. Prima dell’escalation militare le due parti ponevano pre-condizioni difficile da accettare: i tigrini chiedevano la liberazione dei prigionieri e un governo di transizione verso le elezioni che dovrebbero essere fatte probabilmente verso maggio-giugno 2021. Ma questa condizione non è accettabile dal governo centrale perché significherebbe destituire il primo ministro.
Quali potrebbero essere le vie di dialogo?
Bisognerebbe riuscire a mettere intorno ad un tavolo le parti togliendo di mezzo queste pregiudiziali e facendo gesti di fiducia reciproca. I tigrini dovrebbero chiedere di non essere esclusi dal processo elettorale e il governo dovrebbe sospendere la decisione di non trasferire il finanziamento alla regione del Tigray. E poi bisognerebbe allargare la questione ad un dialogo nazionale, per rafforzare il processo di transizione verso le elezioni. La comunità internazionale dovrebbe agire in maniera più coesa: anche attori importanti come la Cina dovrebbero avere un ruolo significativo nell’interesse di tutti.
L’ipotesi secessione è possibile?
È difficile perché negli ultimi 20 anni tutte le richieste di autodeterminazione non sono ben viste nel mondo, basta guardare l’esempio del Nagorno-Kabarak. Anche in Africa non si vogliono modificare i confini coloniali. Non mi pare che possa accadere.
Quale scenario prevede?
O si riesce a risolvere in tempi rapidi con la forza oppure
è più facile e più pericoloso che ci sia una implosione tutti contro tutti e si allarghino gli scontri etnici.
Tutto si gioca sul fatto se la popolazione accetterà o meno il cambiamento imposto dal governo centrale. Ma sono due visioni diverse che si scontrano.
Nessuno si aspettava che un premio Nobel per la Pace reagisse così, con atti di guerra. Come valuta la politica di Abiy?
All’inizio ha sollevato grandissime speranze. Ma quando si passa da un regime autoritario e si vogliono cambiare le regole bisogna fare attenzione, sono momenti difficili. Negli ultimi tempi Abiy ha adottato comportamenti contrari rispetto alle parole d’ordine con cui è andato al potere: ha messo in galera i dissidenti, ha chiuso i giornali. Negli ultimi anni si è dato spesso il Premio Nobel in maniera un po’ affrettata.