Mentre si profila la vittoria del democratico Joe Biden, le elezioni americane stanno generando seri dubbi sul sistema elettorale Usa e persino sulla “qualità” della democrazia a stelle e strisce. Ne parliamo con Gianluca Pastori, docente di Storia delle relazioni politiche tra Nord America ed Europa nella facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università cattolica di Milano.
Professore, ormai dovremmo esserci: il nuovo inquilino della Casa Bianca è in arrivo?
Direi di sì, è attesa in queste ore una possibile vittoria di Biden: mentre parliamo ha già conquistato 264 “grandi elettori” dei 270 che occorrono per avere la certezza del successo. Allo sfidante democratico basterebbe aggiudicarsi il Nevada, che porta 6 grandi elettori, oppure la Georgia, con 16. Anche se Donald Trump ha subito dichiarato che contesterà di fronte alla legge l’esito della Georgia.
Ecco, fermiamoci un momento su queste contestazioni. È normale che un presidente metta in discussione il risultato elettorale?
Molti osservatori hanno sottolineato come Trump abbia più volte sollevato dubbi sul voto postale, ha lasciato intendere che esistano brogli sistematici, ha dichiarato che i cittadini vengono derubati del diritto di voto e si è persino spinto a dire che è pronto a portare in Corte Suprema la questione del risultato elettorale. Al di là della realizzabilità di questo obiettivo (che non è scontata), in questo modo il presidente uscente mette in discussione le regole del gioco e questo è destabilizzante. Ricordo che anche nel 2000, nella sfida tra Bush Jr. e Al Gore, quest’ultimo aveva chiesto il riconteggio dei voti in Florida: ma ciò sempre all’interno delle regole del sistema elettorale, infatti poi aveva accettato il risultato. Trump si sta spingendo oltre ed è questo a essere pericoloso. Il futuro presidente, infatti, potrebbe essere ritenuto, almeno da una parte della popolazione statunitense, come un presidente illegittimo. In questo modo si seminano interrogativi sull’essenza stessa della democrazia americana. E – si potrebbe aggiungere – se non ci credono loro, perché dovremmo crederci noi?
I sondaggi più attendibili alla vigilia davano un forte vantaggio di Biden, attorno al 6% del voto popolare. I seggi stanno dando altri numeri. Cosa è successo? Quali errori ha commesso l’esponente democratico? Oppure la parziale rimonta è merito di Trump?
Forse, e più semplicemente, stiamo verificando che i sondaggi si sono dimostrati imprecisi. Mi spiego. Nelle elezioni di quattro anni fa, Hillary Clinton era data in vantaggio del 2-3% su Trump nel voto popolare, e in effetti l’esito è stato quello. I sondaggi avevano colto la macrotendenza, ma non avevano saputo collocare territorialmente quei voti, ovvero la loro distribuzione nei 50 singoli Stati e dunque la conseguente assegnazione dei grandi elettori.
Insomma, i sondaggi erano azzeccati… eppure sbagliati. Oggi avviene qualcosa di simile.
Da una parte sembra esserci la tendenza degli elettori trumpiani a non esporsi dichiarando la propria scelta, dall’altra c’è la difficoltà dei sondaggisti a definire la distribuzione dei voti sul territorio. Ad esempio, è stato detto che la Pennsylvania sarebbe stata a maggioranza democratica, invece non sembra essere così e, in ogni caso, anche un eventuale vittoria di Biden verrà dopo la battaglia molto più combattuta di quanto ipotizzato. I sondaggi a mio avviso non colgono la granularità del voto. Ma potremmo aggiungere un altro elemento.
Quale?
Potremmo affermare che i sondaggi non riescono a individuare le scelte elettorali delle minoranze, il cui voto ha un peso notevole. Ebbene, fuori dagli schemi, chi saprebbe dire cosa votano gli ispanici? Ma, soprattutto, quali ispanici? Quelli che raccolgono il cotone nelle piantagioni del Texas o coloro che hanno raggiunto una buona posizione economica e professionale in una grande città? Insomma, i sondaggi non colgono la mobilità sociale delle minoranze e quindi nemmeno la loro “mobilità politica”.
Comunque sia, gli Stati Uniti si presentano divisi, una nazione persino spaccata in due…
È un Paese fortemente polarizzato. Sul piano politico questo è cominciato dopo il crollo delle Torri gemelle, poi è arrivata la guerra in Iraq, la crisi finanziaria del 2007… La stessa elezione e presidenza Obama aveva alimentato forti divisioni, di cui Trump si è servito per costruire la sua carriera politica, per diventare presidente e ora per tentare di rimanere alla Casa Bianca. Attualmente la pandemia Covid-19 colpisce duramente gli Usa: è una crisi dura, ma “contingente”.
Preoccupa invece, sul lungo periodo, lo scontro in atto sulla identità americana.
Le proteste razziali sono una spia in tal senso. Ma pensiamo anche alla forte mobilitazione attorno alla storia statunitense, alla memoria collettiva: ricordiamoci dei simboli abbattuti di recente, fra cui la statua di Cristoforo Colombo. Sono segnali da non trascurare. Più che un confronto politico, quello fra Trump e Biden appare come un diverso modo di interpretare il proprio essere americani. Ritengo che dovremmo preoccuparcene tutti: a mio modo di vedere gli Usa stanno manifestando un problema dell’Occidente, il nostro modo di essere, di pensarci, di raccontarci, di riconoscerci.
Negli Stati Uniti c’è in ballo anche la democrazia?
La democrazia è comunque un sistema politico “problematico”, nel senso che richiede sempre equilibri nuovi, è attraversato da sfide sistemiche, deve rispondere a efficienza pur rimanendo nelle regole individuate di comune accordo. Se vogliamo, le cosiddette democrazia illiberali hanno vita più facile, ma di fatto mettono in discussione il concetto e il valore stesso della democrazia. Cosa ci dicono i casi di Cina, Russia, Turchia? Quali sfide pongono? Qualcuno potrebbe chiedersi: ci conviene essere democratici? La mia risposta è certamente sì. La democrazia è ancora il migliore sistema per garantire libertà e diritti, anche se non tutto è così pacifico e scontato.