Sono partiti il 14 settembre a Doha, in Qatar, i colloqui tra Governo Afghano e Talebani, con la benedizione degli Stati Uniti, presenti alla seduta inaugurale con il capo della diplomazia, Michael Pompeo. L’obiettivo dichiarato è quello di porre fine a due decenni di guerra che hanno provocato migliaia di morti e milioni di sfollati. La delegazione talebana, guidata da Mawlawi Abdul Hakim Haqqani, vede al suo interno alcuni rappresentanti che hanno già avuto modo di negoziare l’accordo con gli Stati Uniti sul ritiro delle truppe. Con lui il mullah Abdul Ghani Baradar, che sull’accordo con gli Usa ha posto la firma quale capo negoziatore. Nella delegazione del governo afghano fanno parte, oltre all’attuale presidente dell’Alto Consiglio per la riconciliazione nazionale, Abdullah Abdullah, anche tre donne a significare come il tema dei diritti umani e soprattutto quello delle donne stia molto a cuore ai rappresentanti del Governo. L’avvio dei colloqui intra-afghani è stato accolto con soddisfazione dalla comunità internazionale. L’Onu, si legge in una nota, “si unisce alle persone coraggiose e resilienti del paese nell’esortare tutti i leader e negoziatori afgani a cogliere questa storica opportunità per porre fine ai combattimenti e inaugurare una nuova era di pace e prosperità”.
“Non sono dialoghi di pace”. “Non credo sia opportuno lasciarsi trascinare dall’ottimismo mostrato da molta stampa internazionale che ha insistito sul concetto di dialoghi di pace. Non sono dialoghi di pace ma colloqui negoziali che dovranno portare ad una soluzione mediata o di compromesso” avverte Claudio Bertolotti, direttore di Start InSight (Strategic Analysts and Research Team), tra i massimi esperti di Afghanistan. “E il compromesso afgano – aggiunge l’analista citando un vecchio adagio – non è quello che rende tutti equamente soddisfatti ma rende tutti equamente insoddisfatti”. Sarà difficile trovare la quadra tra la visione teocratica talebana e quella democratica del Governo. Di fatto, spiega Bertolotti, “il Governo afghano ha già dovuto accettare l’accordo Usa-Talebani del 29 febbraio scorso che gli ha imposto anche il rilascio di prigionieri talebani detenuti nelle carceri governative”. Ne deriva che i colloqui di Doha sono destinati a “riconoscere quanto conquistato dai talebani in questi due decenni di guerra”.
“Trump ha concesso tutto quello che i talebani potevano chiedere. Ciò è molto pericoloso perché impone al Governo afghano di interloquire con un soggetto, i talebani, che hanno la ‘benedizione’ statunitense”.
Il Governo afghano sarà così chiamato a tutta una serie di rinunce per quello che riguarda in primis la condivisione del potere e la cessione del controllo del territorio che già esiste. Oggi almeno il 40% del territorio afghano è controllato dai talebani e dai gruppi loro affiliati”. Altro punto nevralgico per il Governo sarà “la rinuncia a qualsiasi forma di contrasto alla produzione e commercio di oppiacei che rappresenta il 60% delle entrate dei talebani”.
“I veri vincitori della guerra sono i talebani”
afferma Bertolotti. “Hanno resistito a qualunque tipo di offensiva e di contrasto. Il tempo ha dato loro ragione. Quel ‘tempo’ che, in passato, ha permesso agli afghani di vincere sul campo di battaglia contro le invasioni straniere. Vale il detto, ‘voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo’, per dire che non basta la tecnologia e la capacità militare per vincere una guerra. I talebani in 20 anni di conflitto sono passati da poche migliaia di insorti a 50/60 mila combattenti che arrivano a 200 mila con la catena di supporto al loro movimento. Hanno resistito e oggi, a fronte della stanchezza occidentale, ‘passano all’incasso’. Basti immaginare che oggi i militari statunitensi più giovani mandati in Afghanistan hanno 19 anni, sono nati nel momento in cui questa guerra iniziava”.
Il ruolo degli Usa. Non è un caso che sono gli Usa sono quelli che spingono di più per arrivare ad un accordo. “Il presidente Donald Trump – spiega l’analista – intende perseguire il disimpegno dalle guerre che vede coinvolti i soldati americani anche per mantenere le promesse elettorali. Le prossime elezioni presidenziali sono dietro l’angolo e annunciare un accordo intra-afghano potrebbe essere un asso nella manica”. “Più cauti – sottolinea il direttore di Start InSight – sono i vertici militari del Pentagono che sconsigliano un disimpegno totale dall’Afghanistan perché ciò potrebbe creare un vuoto che sarebbe riempito dai talebani, abbattendo il Governo afghano, e da altri attori della galassia jihadista, Al Qaeda e Stato islamico”. L’alternativa possibile? Per Bertolotti, “forse quella di allungare i tempi, ma Trump non ne avrebbe certo beneficiato”.
La Nato e l’Italia. Un progressivo ritiro americano avrebbe riflessi anche sulla missione Nato ancora in corso, cui partecipa anche l’Italia con un impiego massimo di 800 militari, 145 mezzi terrestri e 8 mezzi aerei, suddivisi tra Kabul e Herat. Per l’analista “l’Italia sarà coerente con gli impegni presi finora in ambito di Alleanza Atlantica. Quando questa avvierà, in linea con le decisioni statunitensi, una diminuzione della presenza militare in Afghanistan, noi faremo lo stesso. L’auspicio è che ciò non avvenga con iniziative unilaterali da parte degli alleati. Va anche ricordato che oggi l’impegno Nato è marginale e non operativo”.
Di questa missione, sottolinea Bertolotti, “resta il sacrificio altissimo dei nostri soldati che, nonostante risorse estremamente limitate, hanno sempre avuto una grande iniziativa e capacità di adattamento. Tanti risultati sono stati raggiunti proprio grazie a questa capacità
, riconosciuta anche dal generale David H. Petraeus, già comandante delle forze statunitensi in Afghanistan con queste parole: ‘gli italiani hanno svolto attività da manuale’”. “Ora – spiega l’analista – metà di questo manuale, una vera e propria Bibbia per i militari, insiste sulla necessità di capire la cultura dell’altro e di interfacciarsi con essa cercando non tanto di fare le cose giuste quanto di non fare cose sbagliate. In questo i nostri soldati sono stati davvero bravi”.