Il 10 giugno scorso una delegazione del Governo iracheno, guidata dal Primo Ministro Mustafa al Kadhimi, si è recata a Mosul e nella Piana di Ninive. Una visita tanto significativa quanto attesa nella città che, dopo la conquista il 9 giugno del 2014, divenne la capitale irachena dello Stato Islamico (Daesh). Di lì a poco le milizie del Califfo Al Baghdadi occuparono e devastarono anche la Piana di Ninive costringendo alla fuga verso Erbil e il Kurdistan oltre 120 mila cristiani. Le ferite e i traumi provocati in quegli anni dai miliziani dello Stato Islamico sono ancora vive e aperte nella comunità cristiana il cui rientro, lento, nelle proprie terre è accompagnato da sentimenti di paura e di incertezza per il futuro, come racconta al Sir l’Arcivescovo caldeo di Mosul, mons. Najib Mikhael Moussa. Il presule, durante la visita, ha incontrato il premier al Kadhimi e anche la ministro per rifugiati e migranti, Evan Faeq Yakoub Jabro, di fede cristiana caldea.
“Il nuovo Governo – afferma mons. Moussa – sta mostrando grande interesse per questa area del Paese e intende riallacciare i legami con la sua popolazione per garantire sicurezza, ricostruzione e progresso. Primo passo è riattivare i progetti messi in campo da numerose organizzazioni internazionali che vogliono ricostruire Mosul e la Piana di Ninive. La visita del premier al Khadimi è servita proprio a questo: rassicurare la popolazione che ha sofferto molto e dirle che non è stata dimenticata.
La sfida della ricostruzione materiale passa anche attraverso quella umana
che si raggiunge rinsaldando i legami fraterni che esistono tra le diverse etnie e fedi e che hanno per secoli composto un mosaico straordinario di culture”.
Mons. Moussa, qual è oggi la situazione a Mosul?
La parte ovest della città, quella situata sulla riva destra del fiume Tigri, è praticamente distrutta per il 90%, soprattutto la città vecchia. Si tratta di quartieri vandalizzati, saccheggiati e distrutti durante l’occupazione di Daesh. Ci sono molti progetti di ricostruzione ma procedono molto lentamente a causa della burocrazia e di ostacoli di vario genere. È una vera tortura. La riva sinistra, invece, è in condizioni migliori, per certi versi intatta e ha visto il ritorno della sua popolazione subito dopo la sua liberazione.
Che genere di ostacoli?
Lo spirito di Daesh è ancora vivo in molti qui a Mosul. Lo Stato islamico è stato sconfitto sul piano militare ma non su quello ideologico. Questa è una della cause che rallentano la ricostruzione della città. Ogni volta che si cerca di ripartire con la ricostruzione nascono ostacoli che rallentano o bloccano i progetti. Per questo speriamo che il nuovo Governo sappia snellire la burocrazia, rimuovere gli ostacoli e dare il via ai lavori di ricostruzione delle case, delle infrastrutture così come delle moschee e delle chiese”.
A tale riguardo ricordo che l’Unesco aveva lanciato nel 2018 la campagna “Revive the spirit of Mosul” per raccogliere fondi per ricostruire monumenti e luoghi di culto che simboleggiano l’identità plurale, multietnica e multireligiosa della città come la chiesa siro-cattolica di Al Tahera e il complesso della moschea di Al Nouri…
Esatto. Questi e altri luoghi di culto saranno ricostruiti grazie anche a finanziamenti degli Emirati arabi uniti. Proprio qualche giorno fa sono stato, insieme ad una delegazione di leader religiosi islamici e di capi di tribù di Mosul, a visitare ciò che resta della Grande Moschea di Al Nouri, un tempo conosciuta anche per il suo particolare minareto pendente, la chiesa dei padri domenicani e altri luoghi di culto cristiani, tutti demoliti da Daesh. È stato un gesto fraterno molto importante per la ricostruzione morale e per la riconciliazione tra tutte le componenti della popolazione locale. A breve, poi, dovrebbero prendere il via i lavori di ricostruzione della Chiesa latina dell’Orologio, nel centro di Mosul, officiata dai Padri Domenicani e fatta esplodere da Daesh nell’aprile 2016.
È dunque ricostruendo il mosaico di fedi e di culture che si abbatte l’ideologia del Daesh?
Vogliamo dare di nuovo alla città di Mosul quell’identità multiculturale che ha sempre avuto nel corso della sua lunga storia. Questa è la sfida vincere contro l’ideologia di Daesh che ancora sopravvive in alcuni settori della popolazione.
Perdoniamo ma non possiamo dimenticare il passato. Le ferite del passato sono ancora lì. Lo dobbiamo alle generazioni future, per non cadere negli stessi errori.
Vogliamo la ricostruzione, vogliamo migliorare la nostra società, rinnovare un clima di solidarietà, fraternità e di rispetto dei diritti. Lo abbiamo ribadito al premier al Khadimi quando è venuto a Mosul.
Cosa avete chiesto al premier iracheno in tema di diritti?
Che i cristiani godano degli stessi diritti di tutti gli iracheni. Non vogliamo essere considerati cittadini di serie B.
Non siamo ‘dhimmi’ che devono pagare la protezione come accadeva con Daesh.
Abbiamo detto al Primo Ministro che siamo cittadini come gli altri. L’Iraq deve ribadire il diritto alla cittadinanza. Non può essere una maggioranza etnica o religiosa a decidere le leggi. L’Iraq sia un Paese laico e non uno Stato confessionale. Oggi la Costituzione in Iraq afferma che l’Islam è religione di Stato. Bisogna garantire a tutti i cittadini uguaglianza e pari diritti a prescindere dall’orientamento religioso. Siamo uguali in quanto esseri umani e non per fede religiosa. Questa non deve dividere ma unire nei valori di solidarietà, pace e tolleranza. La religione deve aiutare a migliorare il mondo.
La cittadinanza per noi è la priorità.
La direzione da seguire ce la indica Papa Francesco nel Documento sulla Fratellanza umana firmato ad Abu Dhabi con il Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Muhammad Al-Tayeb: vivere una fraternità senza confini e frontiere. La diversità è una ricchezza e non un pretesto per sopraffare gli altri. La legge non deve essere del più forte.
Dopo sei anni come procede il rientro dei cristiani a Mosul e nella Piana di Ninive?
Il rientro dei cristiani a Mosul procede molto lentamente. Ad oggi possiamo contare solo una cinquantina di famiglie. Le ragioni sono la totale distruzione della zona ovest, quella sulla riva sinistra del Tigri, maggiormente abitata dai cristiani e la paura per ciò che è capitato.
I cristiani locali sono rimasti traumatizzati da Daesh, costretti a fuggire senza poter prendere nulla, si sono visti prendere beni, case, negozi, proprietà, derubati di tutto. Ora vanno aiutati a tornare ma hanno paura.
Non è facile perché i traumi sono profondi e destinati a durare. Come Chiese cristiane siamo tutte unite per aiutare i fedeli. Mostrarci uniti vuole dire dare fiducia e infondere coraggio alle nostre comunità.
Nella Piana di Ninive le cose vanno meglio?
Nei villaggi della Piana il rientro è stato più veloce anche perché molti progetti di ricostruzione sono partiti subito grazie anche alle organizzazioni umanitarie internazionali. Si stima che i due terzi dei 120 mila cristiani che erano fuggiti verso il Kurdistan siano rientrati nei loro villaggi a Qaraqosh, Tel Kaif, Al Qosh, Karamles, Telluskof e altri. Certo non mancano le preoccupazioni date dai tentativi di alterare la demografia di questi territori tradizionalmente a maggioranza cristiana. Allarma il tentativo di acquistare le terre di cristiani costretti a fuggire e che ancora non hanno potuto fare ritorno.
La pandemia Covid-19 vi sta causando problemi particolari?
Direi di no. La popolazione sta rispettando a pieno le restrizioni date dal Governo, c’è molta disciplina. In ogni caso dopo aver subito l’occupazione e la violenza del Daesh possiamo dire di avere già l’antivirus in corpo (ride). Il Covid ha rafforzato la nostra identità, ha avvicinato i fedeli alla Chiesa, grazie anche alle nuove tecnologie. La Pandemia ha innescato reazioni positive di solidarietà, rafforzato i rapporti umani. Va colta come una opportunità per la gente di riavvicinarsi, soprattutto in circostanze come quelle attuali.