Centinaia di contagiati, almeno. E vari morti. È il costo salato di un settore ritenuto “essenziale” in tutti i Paesi del Sudamerica: l’attività mineraria ed estrattiva, che in qualche caso (si pensi al Perù) costituisce un percentuale significativa del Pil. Da settimane le organizzazioni sindacali, ambientali, territoriali e indigene cercano di puntare l’attenzione sul dramma dei lavoratori delle miniere, già spesso costretti a lavorare in situazioni proibitive, in un contesto di dannoso impatto ambientale per le popolazioni locali. Una conferma che non è facile cambiare un modello economico intensivo che ha portato ricchezza spesso effimera in quei Paesi, aumentando diseguaglianze, ingiustizie, inquinamento e deforestazione, soprattutto a danno dei popoli originari. Infatti, anche se tutto il continente è da mesi in quarantena, le miniere non si sono mai fermate. Ora la società civile si sta riorganizzando a fa sentire la sua voce, spesso con l’appoggio della Chiesa.
Da una parte, molte organizzazioni latinoamericane (tra cui in molti casi la Pastorale sociale e congregazioni religiose) fanno parte dell’ampio cartello di 366 realtà che hanno firmato un manifesto mondiale, nel quale si accusano le grandi imprese minerarie di “approfittare della pandemia” per allargare la propria attività e per evitare contestazioni. Si segnala che tali azioni “rappresentano una minaccia immediata per la salute e la sicurezza dei lavoratori e delle comunità e organizzazioni che hanno combattuto per decenni per difendere la salute pubblica, contro la distruzione e la devastazione dei loro territori da parte dell’estrattivismo minerario”. Dall’altra, non mancano prese di posizione più circoscritte, nei singoli Paesi.
In Brasile “bomba a orologeria”. In Brasile, la settimana scorsa, è stata presentata da circa cento organizzazioni una campagna, firmata anche finora da 800 persone, per contestare la scelta del ministero per l’Energia di non chiudere le miniere, a dispetto delle indicazioni dell’Oms e dello stesso Ministero della Salute del Brasile. “I lavoratori del settore – si legge nel manifesto – dovrebbero essere principalmente protetti dal rischio di contaminazione di Covid-19, poiché sono esposti, in un modo più intenso rispetto alla media della società nel suo insieme, ai rischi ambientali e sanitari derivanti dall’attività mineraria”.
Cosa che non accade, come sottolinea al Sir padre Dario Bossi, provinciale dei comboniani in Brasile e uno dei coordinatori della rete continentale ecumenica Iglesias y Minería: “Sono significative le dichiarazioni del ministro brasiliano dell’Ambiente, pronunciate durante un dibattito del Consiglio dei ministri che nei giorni scorsi è stato reso pubblico. Parla esplicitamente del fatto che bisogna ‘approfittare’ della pandemia, di questo momento di tranquillità, per devastare ancora di più l’ambiente in Amazzonia o in altre zone del Paese, anche con progetti estrattivi. Quella internazionale e quella brasiliana sono azioni parallele. Si è raccolta un’alleanza vasta, dai sindacati alle associazioni per l’ambiente e i diritti umani. Abbiamo cercato di smontare l’affermazione che quella mineraria è un’attività essenziale”. Piuttosto, in piena emergenza Covid-19, le miniere “si rivelano una bomba ad orologeria – prosegue il missionario comboniano -. Abbiamo riscontrato che laddove esistono impianti minerari, l’impatto del virus è maggiore. Se in Brasile il tasso di mortalità sui contagi è del 6%, nei distretti minerari si arriva a una media dell’8%, con una punta del 18,9% nel municipio di Marabá, nello Stato del Pará. I minatori sono persone la cui salute è già, in molti casi, compromessa e sacrificata. Lo si vede, per esempio, dall’aumento di patologie tumorali”. Inoltre, denuncia padre Bossi, “le imprese tendono spesso a minimizzare, a ostacolare l’effettuazione di tamponi. Poi, magari, in modo ipocrita, investono in campagne di beneficienza, di acquisto di mascherine, o fanno offerte evitando di pagare le multe che gli sono state date”. L’obiettivo è “mettere pressione non solo sul Governo, ma anche su altre Istituzioni, per esempio in alcuni casi la Magistratura ha comunque chiuso gli impianti”.
In Perù tanti contagi e pochi protocolli. Situazione simile in Perù, il Paese sudamericano che più di ogni altro dipende, per la sua economia dall’attività estrattiva, come emerge dalle voci che il Sir ha raccolto.
Jaime Borda, segretario esecutivo della rete Muqui, che raggruppa venti organizzazioni territoriali di 11 regioni peruviane, conferma: “Le imprese minerarie sono state in gran parte escluse dalla quarantena. Ci sono molte denunce da parte dei sindacati, sul mancato rispetto dei protocolli. I minatori chiedono alle imprese il tampone obbligatorio, cosa che finora non è avvenuta”.
Sono parecchi i casi di contagio: “Difficile dare una cifra precisa, qualcuno dice 750, qualcun altro un centinaio in più. Ci sono state anche delle vittime, soprattutto alla grande miniera di rame e zinco di Antamina, nella regione settentrionale dell’Ancash. Ma, come detto, i tamponi effettuati sono pochi. Le miniere avrebbero dovuto funzionare al 50%, invece sono già tornate all’attività normale, nonostante la pandemia sia ampiamente in atto in Perù. Siamo molto preoccupati”.
Conferma Andrea Bernal, specialista legale del Caaap (Centro amazónico de antropología y aplicación práctica): “Solo ad Antamina i contagiati sono 500. Oltre ad Antamina, altre società hanno continuato il loro lavoro durante il periodo, anche quando a un certo punto era stata stabilita in alcuni casi la cessazione di queste attività. Allo stesso modo, a Puerto Maldonado, sono proseguite le attività estrattive. Questo ha anche evidenziato la mancanza di presenza e controllo statale in queste aree. Ciò dimostra che lo Stato non ha sviluppato strategie in grado di adottare misure precauzionali in settori estrattivi come l’estrazione mineraria, ma sono state emanate normative flessibili, che hanno lasciato un ampio quadro di discrezionalità”. In effetti, le linee guida approvate a fine aprile “non stabiliscono protocolli chiari su come dovrebbero essere fornite le misure di protezione che consentano la sicurezza non solo dei lavoratori ma delle persone che vivono nelle zone in questione”. Non c’è, del resto, da stupirsi: “Il fatto di dare la priorità alle attività estrattive sulla salute – non solo dei lavoratori, ma soprattutto delle popolazioni indigene che si trovano nelle aree vicine – è una risposta sistematica dello Stato”, che si è riflessa nella pandemia e nelle varie risoluzioni.
In tale, contesto, conclude Bernal, “la società civile ha una posizione vigile e propositiva. Pertanto, cerca di stabilire meccanismi di comunicazione con le autorità e cerca di coordinarsi con le organizzazioni indigene. In linea generale, la società civile e la Chiesa svolgono un ruolo centrale nell’accesso alla salute delle popolazioni indigene”.