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Africa: le “guerre a bassa intensità” fanno più morti del coronavirus

Milizie e guerriglia imperversano in Ciad, Repubblica Centrafricana, Sud Sudan, Mozambico. Armi e violenza non danno pace a popoli impoveriti. Le voci dei missionari italiani raccolte da Missio

Immagini dal Centrafrica e dal Ciad (foto Missio)

I trattati di pace in Africa non sempre reggono e quasi mai portano alla conclusione definitiva dei conflitti. Le cosiddette “guerre a bassa intensità”, come quelle che ancora si combattono in Ciad, Repubblica Centrafricana o Sud Sudan (e da ultimo anche nel nord del Mozambico), fanno spesso più vittime della guerra conclamata. A parlarne sono missionari e missionarie che vivono da anni nelle zone di conflitto e che lanciano l’allarme al resto del mondo: “qui la morte non fa più notizia”, dicono. Violenza che genera, a sua volta, povertà, in Paesi non esenti dalla pandemia da Colvid-19. Il portale della Fondazione Missio (https://www.missioitalia.it/) raccoglie queste testimonianze, raccontando il dolore dei popoli dimenticati.

Ciad, le armi di Boko Haram. Suor Paola Nuzzi, da oltre trent’anni in Ciad (adesso in Italia per una breve pausa), missionaria della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret, vive nella capitale N’Djamena. Racconta a Missio che in questi mesi il clima è di profonda insicurezza. “A noi che viviamo a N’Djamena – spiega – la vita sembra calma e tranquilla, ma dall’altra parte del Paese si continua a combattere senza che si sappia. I civili continuano a morire. Sono tanti, davvero tanti. A rimetterci sono sempre i più poveri, quelli che non riescono a difendersi”. Il gruppo terrorista Boko Haram imperversa nella regione del lago Ciad da molti anni; ad aprile scorso le truppe governative, coordinate dallo stesso presidente, il dittatore Idriss Déby, hanno lanciato un’offensiva, la cosiddetta “operazione ira di Boma”, uccidendo circa mille miliziani. Ma i ribelli sono sempre pronti a organizzare rappresaglie che prendono di mira la gente comune. “Le persone hanno paura e molte volte abbiamo avuto paura anche noi suore”, racconta suor Paola. “Quando sono arrivata in Ciad negli anni Ottanta, questa terra non dava nessun frutto, sembrava dura come il cemento – ricorda –. Adesso si comincia a coltivare, ma i nostri stessi governanti hanno sempre saputo che far crescere il Paese significava non avere più il controllo sul popolo. Quando sono arrivata io c’erano appena cinque chilometri di strada asfaltata». Adesso il Ciad è più sviluppato, ma resta poverissimo. Eppure la ricchezza non manca: qui i giacimenti di gas e petrolio fanno gola a molti. La Francia “considera ancora il Paese come una sua colonia”.

Diamanti, tra instabilità e conflitto. Portano instabilità e conflitto anche i diamanti della Repubblica Centrafricana, dove vive suor Elvira Tutolo, consorella di suor Paola. Gli ultimi episodi di violenza risalgono a una settimana fa, dove le 14 milizie armate non si sono sciolte e non hanno deposto le armi, nonostante la firma di un trattato di pace. “La città di Obo è stata messa a ferro e fuoco e la settimana scorsa hanno sparato nel centro di un’altra cittadina, Ndele. Le milizie continuano a creare problemi e non rispettano la firma dell’accordo di pace (siglato il 5 febbraio 2019). Questa è una situazione drammatica: speravamo tanto nella pace”, racconta suor Elvira a Missio.

La situazione in Centrafrica. “L’anno passato si è arrivati a un accordo condizionato: la comunità internazionale ha detto: ‘se smettete di combattervi vi diamo dei ministeri’: parlavano di governo inclusivo e di unità nazionale. Ma a mio avviso è stato un vero patteggiamento col nemico – dice ancora suor Elvira da Bangui –. Noi missionari, che conosciamo la sofferenza della gente, abbiamo sempre detto che non era giusto negoziare». A Bangui, in Centrafrica, vive anche padre Federico Trinchero, missionario Carmelitano scalzo che in una lettera raccolta dal mensile “Popoli e missione”, racconta: “paradossalmente il Centrafrica, dopo anni di guerra, è più pronto di altri ad affrontare situazioni di emergenza e a vivere anche in condizioni estreme”. In questo Paese massacrato dal conflitto tra Seleka (islamisti) ed anti-Balaka (di matrice cristiana), almeno fino al recente accordo di pace, l’arrivo della pandemia Covid-19 non ha portato finora grossi scombussolamenti. “Già è successo di non avere la scuola per mesi – racconta padre Trinchero – se non anni, di essere costretti a non uscire di casa per settimane, di allestire ospedali da campo, di rinunciare a viaggi o eventi e di organizzare il proprio ridottissimo budget mensile”.

Sud Sudan: la strada sbagliata. Un altro Paese profondamente instabile nonostante la firma dell’accordo di pace con il Sudan, è il Sud Sudan, alle prese con una guerra che si è trasformata in guerriglia interna. Padre Christian Carlassare, missionario comboniano, in Sud Sudan dal 2005, ha detto in un’intervista a Missio: “purtroppo già nel 2013 il Paese ha imboccato la strada sbagliata: una politica escludente che ha fatto precipitare il Paese in un conflitto interno che prende una colorazione etnica. Il processo di pacificazione nazionale infatti, nonostante offra un’arena di dialogo per molte persone, non sembra essere inclusivo e non da’ garanzie”.

Le pastorelle in Mozambico. Infine, il recente conflitto nel nord del Mozambico, a Cabo Delgado, dove si muovono milizie armate di matrice jihadista, che si fanno chiamare anche Ahlu Sunnah Wa-Jama, stanno minando la tranquillità di un Paese che sembrava uno dei più pacificati. “Indubbiamente siamo preoccupate. Gli ultimi attacchi sono a 150 km dalla città di Pemba dove siamo noi. Questi rivoltosi stanno scendendo e nessuno sembra essere in grado di intercettarli”,dice suor Franca Bettin, delle Pastorelle di Pemba, alla rivista NotiCum. Non è chiara l’identità dei terroristi, che però sarebbero affiliazioni degli al Shabab. “Si continua ad alzare la posta in gioco. È di questi giorni la notizia di 52 morti ai primi del mese di aprile. Mai così tanti – racconta –. Il vescovo di Pemba, dal quale dipende la regione di Cabo Delgado da due anni grida inascoltato, mettendosi in situazioni decisamente scomode. Chiede al governo interventi precisi, ha scritto perfino al segretario generale delle Nazioni Unite. È intervenuta la Conferenza episcopale mozambicana, chiedendo attenzione a quanto sta succedendo nella regione di Cabo Delgado”. Molti degli sfollati arrivano a Pemba da parenti o amici. “Gomes è un nostro vicino di casa e amico – raccontano le Pastorelle –. Sta accogliendo 20 persone in casa sua: parenti e amici di questi parenti. Sono arrivati dalla sera alla mattina, si sono accomodati alla meglio, la capacità di adattamento in Africa ha dell’incredibile. Queste venti persone però tutti i giorni devono mangiare qualcosa, e Gomes certamente non ha la possibilità di sfamarle”.

*in collaborazione con Paolo Annechini e Chiara Pellicci

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