“La nostra indipendenza è senza significato, se non è congiunta alla totale liberazione dell’Africa”. Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana, pronunciò queste parole durante la cerimonia d’indipendenza il 6 marzo 1957; era il primo leader dell’Africa sub-sahariana a compiere questo passo. L’argine stava crollando, ma ci vollero tre anni prima che il processo di indipendenza potesse essere dichiarato ormai irreversibile. Il 1960 sarà infatti l’anno decisivo tanto da essere ribattezzato l’ “Anno dell’Africa”: nell’arco di dodici mesi a cascata, uno dopo l’altro, otterranno l’indipendenza diciassette Paesi, seguiti negli anni successivi da decine di altri. Ma a sessant’anni di distanza a che punto è il cammino del continente? Se lo sono chiesti i ricercatori dell’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale, in un dossier consultabile online.
Il Sir ne ha parlato con Giovanni Carbone, docente all’Università Statale di Milano e responsabile del programma Africa dell’Istituto.
Professore, nel dossier scrive: “Il 2020 doveva essere per l’Africa un anno simbolico adatto per fare il bilancio del cammino fin qui percorso. Si è trasformato invece in un anno spartiacque, di inevitabile svolta”. Ci può spiegare perché?
Perché è un’area arrivata economicamente già affaticata all’inizio di quest’anno e la crisi economica globale provocata dal Covid non farà altro che peggiorare questa situazione. Il continente arrivava da un percorso positivo lungo, iniziato a fine anni novanta e che si è protratto fino al 2014 quando il crollo dei prezzi delle materie prime ha segnato una battuta d’arresto. Ovviamente sto cercando di guardare ai dati complessivi, anche se ci sono state differenze, anche importanti, tra i diversi Paesi. E’ innegabile però che per 15-20 anni il continente abbia conosciuto una crescita economica, accompagnata da progressi politici importanti, come mai era avvenuto nella sua storia recente. Si stava lavorando sull’integrazione regionale, con la nascita di un’area di libero scambio continentale, sull’industrializzazione…
E ora la pandemia rischia di segnare un’ulteriore battuta d’arresto
La forte crescita economica africana di questo quindicennio è stata trainata soprattutto dalle relazioni commerciali con la Cina ed è evidente che il rallentamento dell’economica cinese avrà delle ripercussioni. Purtroppo negli ultimi anni avevamo già assistito ad un aumento preoccupante del debito pubblico dei Paesi africani, il timore è che possa andare fuori controllo.
In questi anni di crescita è cambiata anche la narrativa con cui l’Africa viene raccontata. Teme vi sia il rischio di tornare indietro?
Ci sarà un rallentamento, ma non mi aspetto un ritorno all’isolamento internazionale degli anni novanta. Perché ci sono dei passi in avanti che sono irreversibili: in molti Paesi sono cambiati gli assetti politici e le leadership, si sta lavorando all’integrazione continentale con un’area di libero scambio (la cui implementazione è stata momentaneamente sospesa). Certo, restano elementi di fragilità come la corruzione diffusa, ma abbiamo avuto in molti contesti un’alternanza democratica e un ricambio di leader che era impensabile fino a venti anni fa. Anche sul piano internazionale il cambio è stato evidente con la comparsa di nuovi attori: non solo la già citata Cina, ma anche India, Brasile, Turchia e i Paesi del Golfo.
Guardando a questi sessant’anni c’è chi parla di un’indipendenza non ancora compiuta e di processi di neo-colonialismo in corso. Cosa ne pensa?
Diciamo che c’è stato un processo di emancipazione dalle potenze coloniali favorito dall’arrivo di questi attori che hanno permesso maggior libertà nel scegliere i partner, ma questo non ha risolto un problema di fondo:
la dipendenza economica del continente dall’esterno.
E facilmente le pressioni attraverso l’economia diventano politiche.
Se pensiamo agli anni ’60 viene facile ricordare i nomi dei Padri dell’indipendenza: N’krumah, Senghor, Lumumba, Nyerere… All’Africa oggi mancano leader?
Credo sia improprio fare paragoni perché sono cambiati i sistemi politici e i leader che oggi arrivano al governo attraverso le elezioni vi restano non più di dieci anni e questo rende difficile che possano acquisire un profilo come quelli del passato. Ci sono alcune potenziali eccezioni: evidente è il caso di Abiy in Etiopia, ma penso anche a Ramaphosa in Sudafrica. Poi ci sono altre figure come quella di Kagame in Ruanda che, pur essendo alla guida di un governo molto duro, con accenti autoritari, è riconosciuto sia in sede di Unione africana che negli ambienti internazionali per il proprio carisma e la propria visione.
L’indipendenza non è solo un dato politico, ma anche culturale. Vede una maturazione intellettuale in questo senso?
Oggi non vedo una spinta da parte della società civile africana come nei momenti chiave negli anni ’50 o ’60, ma al tempo stesso c’è un potenziale che sta crescendo, magari non sempre consapevolmente, in settori della produzione culturale come la letteratura, la musica, il cinema o, forse ancor di più, la moda.
Tornando alla politica: che ruolo può giocare l’Europa in questa fase delicata del futuro del continente?
Il rischio è che la fase delicata che ci attende porti a concentrarsi su noi stessi e a perdere di vista l’Africa. Ma né l’Africa né l’Europa hanno da guadagnare dall’isolamento. Penso a fenomeni come il jihadismo, le migrazioni, i commerci. Viviamo vicini ed è necessario collaborare nell’interesse di tutti.