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Incontro Cei su Mediterraneo. Mons. Bugeja (Libia): “Chiesa libica presente e non nascosta”

Al via domani a Bari l'incontro dei vescovi del Mediterraneo promosso dalla Cei. Tra i partecipanti anche il vicario apostolico di Tripoli (Libia), mons. George Bugeja. In una intervista al Sir il vescovo fa il punto della situazione nel Paese nordafricano segnato da una guerra civile e parla del ruolo e dell'impegno della piccola Chiesa cattolica locale che definisce significativamente "presente e non nascosta"

“Presente, non nascosta”: è la Chiesa cattolica in Libia nelle parole del vicario apostolico di Tripoli, mons. George Bugeja. Frate minore di origini maltesi, dal 2015 è a Tripoli prima come coadiutore e adesso come vescovo titolare.

mons. George Bugeja

Non è solo una questione di riconoscimento (anche governativo) – la Santa Sede ha ristabilito le relazioni diplomatiche con la Libia nel 1997 – ma di vera e propria “presenza” sul campo.

“Siamo una Chiesa di ‘presenza’ che svolge la sua missione in un Paese musulmano. Siamo rimasti in Libia quando tutti erano andati via a causa della guerra e questa scelta è stata apprezzata dai libici”

spiega il vescovo, parlando al Sir a margine del seminario, tenutosi ieri a Roma, “Emergenze e crisi umanitarie: il terremoto in Albania, la situazione libica e la rotta balcanica”, promosso da Caritas Italiana. Mons. Bugeja da domani (fino al 23) sarà a Bari per partecipare all’incontro di riflessione e spiritualità, promosso dalla Cei, “Mediterraneo, frontiera di pace” in rappresentanza della piccola chiesa cattolica libica composta da poche migliaia di fedeli. “A Bengasi – dice mons. Bugeja – ci sono tre frati minori, uno arrivato da poco come amministratore apostolico. A Tripoli siamo in due, io e un confratello. Ci sono poi due comunità di suore di Madre Teresa, 8 religiose in totale, volontarie in due istituti governativi vicino Tripoli che ospitano disabili mentali. Il loro lavoro è molto apprezzato”. Il Vicariato di Tripoli ha una sola chiesa, dedicata a san Francesco, “data in uso ma non di proprietà”, poiché fu confiscata, con i beni della Chiesa, dopo la rivoluzione del 1969.

Nel Paese nordafricano la situazione resta sempre molto critica. Gli scontri tra le milizie fedeli al generale Haftar e quelle di Fayez al Serraj, capo dell’unico governo riconosciuto come legittimo dall’Onu, continuano. Ma qualcosa sembra muoversi. Ieri, a Bruxelles, il Consiglio dell’Ue ha deciso di avviare una nuova missione militare navale in Libia per sostituire l’Operazione Sophia, attiva nel 2015, ma depotenziatasi nel tempo, che aveva come obiettivo fermare il traffico di migranti. Questi ultimi riportati a migliaia nei centri di detenzione dalla Guardia costiera libica ed esposti a violenze sistematiche e abusi di ogni tipo. La nuova operazione avrà come primo obiettivo il controllo con forze marittime e di controllo satellitare per rafforzare l’embargo sulle armi in vigore in Libia.

Eccellenza, com’è la situazione oggi in Libia?
Il momento che la Libia sta vivendo è molto difficile. Le difficoltà permangono. La diplomazia sta cercando di lavorare come testimoniato dall’incontro a Bruxelles del Consiglio Ue. Per quanto ci riguarda come Chiesa lavoriamo con le nostre comunità, formate tutte da stranieri, in maggioranza filippini, indiani, pakistani e africani sub-sahariani, tantissimi sono di passaggio.

La gente comune non può fare altro che sperare nella pace.

Quali sono le difficoltà che incontrate quotidianamente?
Lavorando con persone immigrate – e non con i locali – i problemi che ci troviamo ad affrontare sono collegati alla loro condizione. Ogni venerdì nel nostro Vicariato è aperto l’ufficio Caritas davanti il quale si forma sempre una lunga fila di gente che chiede cibo, vestiti, ma anche aiuto per ottenere il visto per entrare in Europa. Cosa che non possiamo fare e non facciamo perché è un compito che spetta alle ambasciate. Quella italiana è presente. Si tratta in maggioranza di nigeriani, eritrei, sud-sudanesi. In tanti scelgono di attraversare il deserto e poi il Mediterraneo perché, dicono, ‘non abbiamo nulla da perdere. Se mai arriveremo in Europa avremo acquistato qualcosa’. Abbiamo toccato con mano la disperazione. Ciò che possiamo fare è solo aiutarli a registrarsi presso l’Unhcr, l’organismo Onu per i rifugiati, o, per chi è desideroso di rientrare nel suo Paese di origine, presso l’Oim, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. Facciamo quel poco che possiamo per quanto possibile. Siamo una Chiesa che opera in un Paese al 100% musulmano e in questo siamo limitati.

Quale sarà il contributo della Chiesa libica all’incontro di Bari?
Racconterò agli altri vescovi e confratelli la situazione che stiamo vivendo e ascolterò quanto avranno da dire a loro volta. Ci ascolteremo reciprocamente e impareremo gli uni dagli altri come affrontare le situazioni, come viverle. Se ciò accadrà avremo raggiunto un primo risultato. Il cammino è lungo ma va compiuto con piccoli e continui passi.

C’è un aggettivo che più di ogni altro può meglio descrivere la sua Chiesa?

Siamo una Chiesa di ‘presenza’ che svolge la sua missione in un Paese musulmano. Non siamo nascosti.

Siamo gli unici rimasti nel Paese dopo che tutte le ambasciate erano andate via a causa della guerra. La Chiesa è rimasta, presente, continuando a lavorare per chi era nel bisogno. I libici hanno molto apprezzato la nostra scelta di restare.

Come sono i rapporti con la maggioranza musulmana?
Fino al 2014 esistevano rapporti e contatti con gli imam locali. Adesso questa rete si è interrotta a causa della guerra e della mancanza di sicurezza. Spero che in futuro possano riprendere.

Incontrarsi e dialogare è un passo nella giusta direzione.

Lei crede nella pace? Realisticamente: crede ci sia ancora spazio per una trattativa di pace, una tregua, un cessate-il-fuoco definitivo?
Ho fiducia. Credo che prima o poi ci si arriverà. La disponibilità ad arrivarci credo ci sia. Speriamo che accada presto. La stabilizzazione del Paese contribuirà in parte anche alla soluzione del problema migratorio dalle sue coste.

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