Per battere il Coronavirus la paura è dannosa

“Il giorno seguente, mentre regnava (…) in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero (…) a un tal eccesso che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima. Ma (…) non già al trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all’infinita moltiplicazione de’ contatti fortuiti, attribuivano i più quell’effetto; l’attribuivano alla facilità che gli untori ci avessero trovata d’eseguire in grande il loro empio disegno”.

“Il giorno seguente, mentre regnava (…) in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero (…) a un tal eccesso che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima. Ma (…) non già al trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all’infinita moltiplicazione de’ contatti fortuiti, attribuivano i più quell’effetto; l’attribuivano alla facilità che gli untori ci avessero trovata d’eseguire in grande il loro empio disegno”.
Sia ben chiaro il coronavirus non è la peste. E le conoscenze, i mezzi e le competenze che abbiamo oggi non sono neanche paragonabili con la scarsità che c’era all’epoca dell’epidemia raccontata da Alessandro Manzoni al capitolo 32 de I Promessi Sposi, da cui sono tratte le righe proposte in apertura. Sono passati 390 anni da quel 1630 in cui è ambientato il dramma manzoniano e questi secoli di distanza si sentono tutti, o quasi.
Il Manzoni, infatti, nel suo capolavoro narra non solo la peste a Milano, ma anche e soprattutto la dinamica che si scatena quando la paura si impadronisce delle folle. Ecco, qui la distanza c’è “quasi” tutta nel senso che la paura sembra poter colpire anche oggi come colpiva nel XVII secolo.
Nella Milano del 1630 le conoscenze scientifiche erano scarse, oggi invece si sa moltissimo, eppure ancora si rischia di dare più credito alle voci incontrollate che alle fonti scientifiche e mediche e si misura la fatica di governare la paura diffusasi a livello planetario. Le autorità dei governi vengono guardate con sospetto. Qualcuno insinua il dubbio che dietro al contagio ci sia una nuova guerra tra superpotenze o almeno degli interessi nascosti (magari delle multinazionali del farmaco). Ecco, da questo punto di vista c’Џ qualche somiglianza con la Milano in preda alla peste di manzoniana memoria. La paura conferma di essere questo tremendo mostro che ieri come oggi, risulta difficilissimo da scacciare quando si impossessa delle persone.
La paura fa saltare gli schemi più razionali, il buonsenso sembra non aver più patria, basta l’urlo di un vicino che grida “all’untore” e subito scatta il panico. Se poi la paura la iniettiamo dove ci sono bambini o ragazzi (vedi “le scuole”), allora ha davvero campo libero. In questo quadro i social, ovviamente, non aiutano, anzi.
In tali situazioni basterebbe (molto facile a dirlo, molto meno a farlo) mostrare di non sottovalutare il pericolo, di ascoltare i consigli di fonti accreditate e scientifiche e di fidarsi dei dati che queste forniscono, di diffidare delle notizie di cui non si conosce la fonte esatta, soprattutto se allarmistiche e palesemente esagerate. Va riconosciuto che quello del fidarsi è un esercizio virtuoso che la paura fa di tutto per soffocare, per ridurre ai minimi termini: il suo alleato principale è infatti il sospetto e quindi tanto meno ci si fida, tanto più la paura può dilagare.
La situazione dell’epidemia del Coronavirus appare preoccupante, specie in Cina, anche perché a quasi due mesi dalla scoperta non si è ancora trovato il vaccino e il contagio continua e interessa il “villaggio globale”. Per il momento, a livello nazionale, nessuno, per fortuna, ha ancora usato la paura come arma politica impropria. Ma, nel nostro Paese è sempre un rischio latente. La paura già di per sé può avere effetti collaterali pericolosi, se poi è usata ad arte per altri fini può diventare davvero una bomba psicologica. Per questo ci vuole molta prudenza e responsabilità. Ne sanno qualcosa i milanesi con la peste del 1630.

 

(*) direttore “La voce dei Berici” (Vicenza)

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