“Il Mediterraneo riscopra la sua vocazione alla accoglienza e alla pace”. È la voce di mons. Gonzales Ruben Tierrablanca, da Istanbul. Parteciperà con questo “sogno” nel cuore all’Incontro per la pace nel Mediterraneo di Bari come presidente dei vescovi della piccola Chiesa in Turchia. “Sarà innanzitutto – dice – un incontro ecclesiale in cui tutti noi vescovi possiamo ritrovarci per uno scambio e un confronto sulle diverse esperienze che viviamo sia in merito alla situazione reale di ogni Paese e Chiesa locale sia alla più ampia questione del Mediterraneo. Un Mare che nella storia è stato solcato, attraversandolo da una costa all’altra, dai popoli che lo abitano. Un luogo che è stato crocevia di incontro ma ultimamente ha perso questa dimensione”.
Mons. Tierrablanca ricorda subito che la Chiesa cattolica in Turchia rappresenta una piccola minoranza nel Paese. Secondo le statistiche i cattolici sono circa 35mila, pari allo 0,05% della popolazione turca (che in stragrande maggioranza segue l’Islam) e sono per lo più comunità di stranieri, molti arrivati qui seguendo le rotte delle migrazioni e quindi siriani, iracheni, afghani, cittadini dell’Africa sub-sahariana. “Siamo ospiti”, racconta il vescovo di Istanbul che aggiunge subito: “Non abbiamo un riconoscimento legale, siamo quindi molto limitati nell’azione ma questo non vuol dire che non facciamo niente. Al contrario, siamo impegnati e ci diamo da fare, pur nei limiti che vanno rispettati”.
L’impegno è soprattutto verso i migranti. “Il governo della Turchia – sottolinea il vescovo – ha preso un impegno verso l’Unione Europea per la gestione dei migranti”. A fronte di un pacchetto (stabilito nel 2016) di 6 miliardi di Euro garantiti dall’Ue, Ankara ha promesso all’Europa di gestire nel paese il flusso dei migranti. Un accordo che soprattutto nei momenti di tensione internazionale, diventa motivo di frizione tra la Turchia che batte cassa e l’Ue che risponde chiedendo progetti sicuri. Secondo i dati di fine anno del ministro dell’Interno di Ankara, Suleyman Soylu, nel 2019 sono stati 445mila i migranti fermati senza regolari documenti in Turchia. Si tratta di un significativo aumento rispetto ai 268 mila del 2018. 105 mila sono stati rimpatriati nei Paesi d’origine.
“Noi siamo a disposizione”, racconta Tierrablanca, e “la Caritas italiana ci sta sostenendo”. L’impegno della chiesa cattolica è soprattutto finalizzato ad aiutare la popolazione immigrata nel difficilissimo processo di integrazione. “Molti di coloro che arrivano qui, non partono subito. Abbiamo l’esperienza degli iracheni che sono arrivati in Turchia addirittura nel 1991, a seguito dello scoppio della prima guerra del Golfo. Sono passati 30 anni e sono ancora qui, in attesa di andare in un altro paese. Vivono in mezzo al popolo turco ed hanno grandissime difficoltà ad inserirsi nella società. Non sono sempre ben accolti. Allora bisogna sostenerli secondo le nostre possibilità”.
“Vedo con molta speranza questo incontro e sono grato alla Conferenza episcopale italiana che ha preso questa iniziativa”, dice padre Tierrablanca. “Sarà un momento di confronto, di ascolto, di creatività per aprire nuove strade”. “Il Mediterraneo ha una vocazione all’accoglienza”. “È uno spirito che per anni hanno dato prova i Paesi europei e l’Italia e che ultimamente per problemi, fanno fatica a ricordare. Però non si perde. Bisogna incentivare, sostenere, far crescere questa vocazione”. Il vescovo invita anche a capire l’origine di questo movimento migratorio. “Le difficoltà e i problemi ma soprattutto le guerre”. E aggiunge: “Un’altra voce che dobbiamo ripetere, senza stancarci, perché non è mai abbastanza è il nostro no alla costruzione e al traffico delle armi che alimentano i conflitti.
La guerra sarà sempre una sconfitta per tutti. La guerra non è mai giusta”.
Mons. Tierrablanca conclude il suo pensiero con una parola sulla paura che spesso i flussi migratori generano nei paesi di accoglienza. “È vero, a volta le tradizioni culturali diverse e spesso anche le appartenenze religiose, quando non si conoscono, mettono paura e creano reazioni negative di protezione e chiusura. Questo fenomeno va capito bene. Ma le frontiere le abbiamo costruire noi e spesso non sono state concepite e determinate con giustizia. Rispondono a che cosa? Ad una cultura? Spesso rispondono piuttosto ad un potere, sono il frutto di una sopraffazione a volte militare. La visione cristiana del mondo è diversa e parte dal presupposto che tutto il genere umano appartiene ad una casa comune. Occorrerà forse fare una riflessione a monte sull’origine di questi problemi, dobbiamo farla”.