Un accorato appello rispettare i diritti umani, “la legge fondamentale della convivenza umana”. E un invito ai quattro Governi interessati: Honduras, El Salvador, Guatemala e Messico. Per concordare una risposta complessiva alla questione migratoria e in particolare a quella delle “carovane” che, come sta accadendo in questi giorni, partono dall’Honduras e dall’El Salvador, attraversano il Guatemala e si presentano alla frontiera messicana, con l’intenzione di attraversare il grande Paese e provare a entrare negli Stati Uniti.
L’appello e l’invito arriva dal cardinale Álvaro Ramazzini Imeri, vescovo di Huehuetenango (Guatemala) e presidente della Pastorale della mobilità umana della Conferenza episcopale guatemalteca (Ceg), intervistato dal Sir: “Credo che sia urgente e necessaria una riunione, anzitutto, dei tre presidenti di Honduras, El Salvador e Guatemala. Si tratta di un problema complesso, che rischia di diventare senza via d’uscita”.
Venerdì scorso il cardinale ha diffuso una nota sull’emergenza, invitando tutti a mettersi in discussione, e ringraziando le comunità guatemalteche per l’accoglienza data ai migranti, anche e soprattutto attraverso le nove strutture della Chiesa. Nel frattempo, alla frontiera con il Messico, sul rio Suchiate, accadeva di tutto: tentativi di forzare il ferreo blocco della Guardia nazionale messicana, che non ha lesinato le maniere forti, arresti di chi riusciva a entrare in territorio messicano e successivi immediati rimpatri, soprattutto in Honduras, senza badare all’eventuale diritto a ottenere lo status di rifugiato da parte di chi fugge dal proprio Paese; minori separati dai genitori. In tutto, pare che su una carovana inizialmente di 4mila persone (ma poi ingrossatasi di molto), i rimpatri siano stati circa duemila. Gli altri si sono dispersi: chi cercando altre vie per entrare in Messico, chi restando in Guatemala, chi decidendo, di sua spontanea volontà, di fare ritorno al suo Paese in un comodo pullman messo a disposizione dalle autorità del Guatemala. Nonostante la frontiera sigillata, in 500 sabato sono riusciti a raggiungere la Casa del Migrante gestita dalla diocesi di Tapachula, la città messicana più vicina alla frontiera.
La situazione è davvero complessa, e il Messico, contrariamente all’autunno del 2018, ha bloccato il passaggio delle carovane. Che appello si sente di rivolgere, eminenza?
Anzitutto, il primo appello è al rispetto dei diritti umani delle persone, a non usare violenza. Io lo capisco, ogni Paese ha le sue leggi e ha tutto il diritto di farle rispettare, anche perché non mi sfugge la pressione messa dagli Stati Uniti sul Messico, ma senza usare la forza. E’ in gioco la legge fondamentale della convivenza umana.
Si potrebbe obiettare che anche dagli stessi migranti sono avvenute forzature, non crede?
Questo è vero. Il compito dei leader, e quindi anche dei leader delle carovane, è di far rispettare la legge. Dico la verità, anche loro hanno delle responsabilità. Tuttavia…
Ci dica…
Tuttavia molti tra i migranti sono disposti a tutto a causa di povertà, disoccupazione, persecuzioni e violenze, che in alcuni casi mettono a rischio la loro vita. E’ una cosa complicata, ma
non si possono mettere in discussione il principio dell’accoglienza, il metodo del dialogo e del negoziato.
Anche di fronte a coloro che forzano la legge bisogna insistere con il dialogo e la negoziazione. E nessuno deve usare la forza.
Si torna sempre, però alla situazione dell’Honduras soprattutto, e in parte dell’El Salvador. Siete in contatto con le loro strutture ecclesiali?
Chiaramente sì, siamo in costante contatto. Per la verità, dobbiamo sperare che le cose cambino anche qui in Guatemala, anche con il nuovo Presidente (Alejandro Giammattei, che si è appena insediato, ndr). Servono, in questi tre Paesi, politiche pubbliche di sviluppo integrale, non c’è altra soluzione.
In Guatemala, invece, si rischia di avere ulteriori arrivi a causa dell’accordo stipulato con gli Usa dal precedente Presidente, sul “terzo Paese sicuro”. In pratica, i migranti che chiedono asilo negli Usa potranno attendere in Guatemala l’esito della loro domanda. E’ un accordo realizzabile?
Il presidente Giammattei, nei mesi scorsi, ha detto di non conoscerlo. Non sappiamo se intenda annullarlo, su questo non ho notizie. Quello che posso dire è che noi stessi, come Chiesa, non abbiamo mezzi sufficienti per accogliere costantemente dalle 2mila alle 4mila persone. Oltretutto, questi migranti tenterebbero comunque di entrare in Messico. Con alcune eccezioni, penso ai venezuelani, i richiedenti asilo potrebbero restare nel loro Paese in situazione protetta. Per questo dico che non si può prescindere da un incontro fra i presidenti di Honduras, Guatemala ed El Salvador, chiamati a elaborare una strategia di “protezione” verso i migranti che ne hanno le caratteristiche. Una riunione da allargare poi anche al Messico.
Torniamo alle carovane. Qualcuno sostiene che sia in atto un’astuta manipolazione, nel farli partire, senza che abbiano reali speranze di entrare negli Usa. In fondo questa emergenza fa il gioco di Trump, della sua volontà di costruire il muro, durante la campagna elettorale. Le risulta?
Intanto devo dire, tornando sui leader delle carovane, che non ho apprezzato l’atteggiamento litigioso dei leader delle carovane, che ha provocato le reazioni delle autorità messicane. Sul resto, non mi risulta, ma neppure lo escludo. Conosciamo la “mano dura” del loro Presidente, potrebbe essere.
Ha, invece, viaggiato di recente negli Stati Uniti. Che situazione ha trovato?
E’ vero, sono stato negli Usa. Lo scopo principale del viaggio, dello scorso dicembre, era incontrare alcuni guatemaltechi originari della mia diocesi, Huehuetenango, in due città. Ho visto con gioia che stanno lavorando duramente e si comportano bene. Ma è vero che a Jackson, nel Mississippi, ho incontrato 700 migranti rinchiusi in un centro di detenzione. Ho visto una situazione disastrosa: persone che alloggiano e mangiano in situazioni precarie, minori separati dai genitori ancora dallo scorso agosto, una lunga attesa senza sapere se verrà concesso loro di restare negli Usa o se saranno rimpatriati.