Erano circa trecento, mercoledì scorso, a San Pedro Sula, nel nord dell’Honduras. Ora sono già oltre 4.000 e, dopo aver attraversato il Guatemala, “spingono” per entrare in Messico, che per ora non lascia passare nessuno. Ci sono famiglie intere ma anche madri sole, più di un terzo sono minori e donne incinte, secondo il rapporto diffuso dall’Onu. La meta, come sempre, sono gli Stati Uniti. È partita la prima carovana di migranti dell’anno, dopo alcuni mesi di relativa stasi. La giornata di ieri è stata drammatica, alla frontiera tra Guatemala e Messico, sul rio Suchiate. La guardia nazionale messicana ha usato le maniere forti e gas lacrimogeni per contenere i tentativi di forzare il blocco, mentre in tanti cercavano di passare la frontiera attraverso il fiume.
L’era delle “carovane” centroamericane era iniziata nell’autunno del 2018; a un primo esodo collettivo, che si era snodato fino a Tijuana, ai confini con la California, ne era seguito un secondo, e poi un terzo, e poi altri ancora. Lo scorso anno, l’accordo tra gli Stati Uniti e il Messico aveva “sigillato” le frontiere. Trump aveva anche firmato in estate un accordo con il Guatemala, definito “terzo Paese sicuro”. In pratica, i richiedenti asilo negli Usa avrebbero potuto attendere la risposta alla loro richiesta nel Paese centroamericano, così come accade per il Messico, in cambio di aiuti.
Quanto sta accadendo dimostra, una volta ancora, che la disperazione e la situazione insostenibile di povertà, violenza e mancanza di diritti umani, soprattutto in Honduras (dove si sentono anche gli effetti di una terribile siccità), sono più forti di qualunque barriera e qualunque accordo.
Delle persone giunte alla frontiera messicana, circa due terzi sono honduregni, gli altri provengono da El Salvador, Nicaragua, Cuba e persone si sono aggiunte dallo stesso Guatemala.
Un esodo continuo. Attraverso alcune testimonianze e prese di posizione, ricostruiamo ciò che sta accadendo in questi giorni, a partire proprio dall’Honduras, principale luogo di provenienza. “Le partenze da qui non sono mai cessate – spiega al Sir mons. Luis Solé Fa, vescovo di Trujillo e presidente della Pastorale della mobilità umana della Conferenza episcopale honduregna –. In realtà il fenomeno, visto da qui, non cambia molto.
L’esodo dal Paese è ininterrotto.
Soltanto, a volte si formano queste carovane, per due motivi: da un lato, chi migra si sente più sicuro, al riparo dai pericoli, dall’altra questi gruppi partono su iniziativa di qualcuno che riesce a radunare i propri connazionali, spesso per motivi politici”.
Continuano a partire nonostante tutto, gli honduregni: “C’è chi cerca di raggiungere qualche parente che ce l’ha fatta, chi è senza lavoro e senza speranze. Eppure, basterebbe vedere la grande quantità di persone deportate, costrette a fare ritorno al proprio Paese dopo aver cercato di arrivare negli Usa, per capire quanto poche siano le speranze di coronare il proprio sogno. Ora, poi, anche il Messico ha detto che non aprirà le frontiere”, prosegue il vescovo.
Mons. Solé riporta, a questo proposito, l’invito che viene rivolto alla popolazione dalla Chiesa honduregna: “Noi invitiamo tutti a pensarci bene, prima di intraprendere questo cammino, a capire se esso è inevitabile.
Noi affermiamo che, da un lato, c’è un diritto a migrare e, dall’altra, anche in diritto a non dover migrare. Dobbiamo ammettere che qui in Honduras molte persone si vedono costrette a migrare”,
a causa della disoccupazione, della violenza, della povertà alimentate anche, come spiega il vescovo, da un’endemica corruzione e dalla crescente presenza del narcotraffico.
Guatemala sotto pressione. Se proviamo a seguire il cammino della carovana si arriva presto al confine con il Guatemala. È quello che ha fatto l’ultima carovana, che si è divisa tra le frontiere di Corinto, Puerto Barrios e Agua Caliente, per poi riunirsi a Esquipulas e raggiungere la capitale, Città del Guatemala. In tanti, qui, si sono fermati nella Casa del Migrante gestita dai padri scalabriniani. “Abbiamo dovuto gestire una situazione molto complessa, la nostra struttura non ha potuto prestare attenzione a tutti coloro che arrivavano – afferma il direttore della Casa, padre Mauro Verzeletti –. Abbiamo dato accoglienza a 767 persone migranti, tra cui 126 donne e 151 bambini. Tra queste, 729 provenivano dall’Honduras”.
Il Messico chiude la porta. Gran parte della carovana è giunta nel fine settimana alla frontiera messicana, dividendosi in vari punti. La maggioranza è Tecún Umán, l’ultima città prima del rio Suchiate, oltre il quale c’è lo Stato messicano del Chiapas. “Siamo molto preoccupati – spiega padre Juan Luis Carbajal, responsabile della pastorale della mobilità umana della Conferenza episcopale guatemalteca -. Già 4mila persone sono alla frontiera con il Messico, e sto parlando solo di coloro che sono giunti a Tecún Umán, l’ultima città prima del rio Suchiate, nel dipartimento di San Carlos. Altri stanno cercando di entrare dal dipartimento del Petén nello Stato messicano del Tabasco. Ma ci dicono che altri 4mila stanno arrivando. Per noi gestire 8mila persone diventerebbe un grande problema umanitario. In questo momento stiamo facendo un grande sforzo, riusciamo a distribuire migliaia di pasti, grazie a un grande numero di generosi volontari. Il ponte sul fiume è come un imbuto, e praticamente nessuno passa”.
“Stiamo monitorando la situazione ogni giorno, attraverso un gruppo di lavoro – dice Claudia León, referente del Servizio gesuita ai rifugiati (Sjr) nella città messicana di Tapachula, che si trova a pochi chilometri dal rio Suchiate. Il Sjr ha aderito a un comunicato diffuso ieri da numerose organizzazioni umanitarie e per i diritti umani messicane, riunite nel Collettivo di osservazione e monitoraggio sui diritti umani del Sudest messicano: “Non c’è chiarezza” sull’atteggiamento delle autorità migratorie e tutto ciò “genera tensione e incertezza”, è la denuncia contenuta nella nota, che prosegue: “Registriamo casi di separazione di famiglie e preoccupa la mancanza di informazioni sul diritto alla protezione internazionale, al momento si entrare nel Paese. Inoltre, le persone delle carovane hanno necessità umanitarie alle quali non si sta dando risposta”.
Proprio lo scenario che il vescovo di Tapachula, mons. Jaime Calderón Calderón, ha chiesto venerdì scorso di evitare, chiedendo: “Le dichiarazioni del Governo federale e il silenzio del Governo statale ci mostrano che la posizione ufficiale è, come in altre occasioni, ambigua ed esitante”. Invece,
“il nostro volto e il nostro atteggiamento sono quelli del Buon samaritano,
che soccorre chi nella sua vita è stato colpito dalla violenza della vita e soffre i dolori del cammino, nel tentativo di cercare migliori condizioni di vita per sé stessi e le loro famiglie”.