Probabilmente è la conferma che ogni proposta negoziale per avviare a soluzione il conflitto in Libia serve a poco se non c’è la volontà di un buon numero di Stati. Così si potrebbe riassumere l’ulteriore scenario apertosi in una guerra da cui non sono estranee le principali Cancellerie, tutte protese a guardare i fatti libici come possibile trama per riequilibrare rapporti di forza, magari per chiudere partite iniziate da decenni, o ancora per verificare se, e come, sia possibile una diversa gestione di altre situazioni oltre quella militare. È facile il riferimento al comparto energetico o alla mobilità umana e alle migrazioni forzate, mentre più complesso è il rapporto tra le diverse anime dell’Islam, la minaccia terroristica, un più generale equilibrio nell’oriente mediterraneo.
Tutte situazioni legate a una mai sopita volontà di controllo esterno di quello scacchiere strategico che da sempre affascina uomini di governo, interessa gli analisti e gli studiosi, richiama le imprese e le attività economiche.
La ripartenza potrebbe iniziare a Berlino o è già cominciata a Mosca, avvalorando così la tesi che singoli Paesi – e l’Unione europea? – possono diventare qualcosa di più che semplici spettatori di una crisi ormai prolungata che gli equilibri di forza – interni ed esterni – al momento non possono in alcun modo condurre ad una conclusione. La sfida, infatti, va certamente oltre lo scontro tra le due macro realtà in cui è ripartito il controllo di quel territorio. Tale analisi, seppur comoda, sembra non tener conto di quelle micro divisioni che permettono di leggere la situazione libica (dai Tuareg nel sud ovest, ai miliziani Tubu nel sud). Immagini certamente non nuove ma che fanno probabilmente la differenza. In questo momento ciò significa impedire alla Cirenaica di annettere la Tripolitania, o fare in modo che quest’ultima possa continuare ad essere l’entità riconosciuta ufficialmente dalla Comunità internazionale. E anche qui le distinzioni, o piuttosto le perplessità, sono tante: il riconoscimento sin qui è stato non solo politico ma quantitativo, lontano da una valutazione della capacità politica e dal peso di alleanze dalle quali tutti attendevano una stabilizzazione dell’intero territorio nazionale.
La preannunciata conferenza, se non pensata in questi termini, rischia di essere solo una possibilità, forse l’ultima. Così come ad una tregua va attribuita la funzione di non compromettere altre ipotesi, oltre a far tacere temporaneamente l’uso massiccio delle armi. Su fallimenti di entrambe le iniziative pesa l’indicazione verso una definitiva suddivisione del territorio in due entità autonome e distinte, o in una pace armata mediante la presenza di una colazione militare che, se pure nel quadro Onu, rischia in partenza di essere un caleidoscopio delle potenze interessate che potranno posizionarsi nelle rispettive aree di influenza. Più che soluzione sarebbe il preludio di uno status quo, immobile e precario.
Saranno dunque le potenze esterne a giocare un ruolo essenziale per salvaguardare i loro interessi, anche quelli delocalizzati rispetto al territorio libico. Oppure – secondo uno scenario non nuovo anzi ritornante nello svolgersi delle relazioni internazionali – andranno a comporre le basi per un “giusto equilibrio”. La motivazione, che rischia di diventare l’obiettivo, sarà certamente legata alla convinzione che la Libia è ingovernabile, o alla retorica che solo il potere esercitato da Gheddafi poteva farla parlare con una sola voce (dato realistico, per altro, se si guarda la frammentazione attuale), o ancora che è necessario salvaguardare la frontiera sud dell’Europa rispetto ai flussi migratori. Questo dimenticando che la Libia rappresenta anche la frontiera nord di una realtà complessa come il continente africano: quell’area sahariana e sub-saheliana diventata ormai un crocevia di instabilità endemica, di sottosviluppo persistente, di povertà inguaribile delle popolazioni e allo stesso tempo di interesse per le potenze europee, di quelle del Golfo e dell’oriente, anche estremo.
Questi ultimi elementi ed assetti costruiscono un quadro che lascia perplessi – come anche vede assente l’informazione – da cui resta esclusa la popolazione, a meno che non la si voglia far corrispondere con i combattenti in azione e pertanto sostenere che i libici sono tutti identificati con le parti in conflitto. Probabilmente è un modo per escludere, e non sarebbe la prima volta, dai giochi dalla trattativa e finanche dal tavolo negoziale quanti del conflitto, della frammentazione, della violenza sono le vittime, magari ignare, dell’interesse sul loro territorio.
Esclusi senza che una ragione convincente sia almeno manifestata e non si limiti ad essere espressione dell’interesse, della potenza, della ragion di Stato. Fattori che per i rapporti internazionali non sono una novità, ma sarebbe chiaramente sprezzante se diventassero la conclusione già scritta dello spiraglio che in questo momento speriamo di poter leggere per la Libia in una tenue volontà negoziale, nella ponderata disponibilità delle parti in lotta a far tacere le armi e in altri segnali che sembrano accedere verso la speranza. Quella speranza che lo scorso 9 gennaio Papa Francesco poneva come obiettivo e come conseguenza dell’azione internazionale che voglia costruire una pace fatta di stabilità, legalità internazionale, rispetto delle regole e, obiettivo sempre più da perseguire, convinzione della centralità del negoziato multilaterale rispetto a quello determinato dalle volontà individuali, che restano sempre veicoli di separazione e contrapposizione.
(*) rettore Pontificia Università Lateranense