Dieci anni da uno dei peggiori terremoti della storia come numero di vittime. Dieci anni in cui la ricostruzione è stata fatta tra mille polemiche ed inefficienze. Da quel tragico 12 gennaio del 2010, con il sisma del 7° grado della scala Richter che alle 16.53 rase al suolo la capitale di Haiti Port-au-Prince, provocando almeno 230.000 morti, oggi la situazione è ancora “insostenibile, desolante e inaccettabile” ma per motivi diversi. A Port-au-Prince non ci sono più edifici distrutti, non si vedono macerie, le tendopoli sono sparite. Ma la distruzione e le ferite invisibili sono nella vita delle persone. E non solo per colpa del terremoto. Una popolazione afflitta dalle peggiori calamità naturali – terremoti, uragani, alluvioni, epidemie di colera – e disastri provocati dall’uomo, come la corruzione, la violenza, la miseria nera e l’instabilità socio-politica degli ultimi due anni.
Questa è Haiti dieci anni dopo, uno dei Paesi più poveri al mondo – pur condividendo lo stesso suolo con la Repubblica dominicana, dove i ricconi americani vanno in vacanza – e tra i più ignorati dall’attenzione mediatica, salvo durante le catastrofi. “È inaccettabile che la gente viva così ed è incredibile che non si riesca a generare un cambiamento. Capiamo che le crisi internazionali sono altrove e che l’opinione pubblica non ha voglia di sentir parlare di Haiti ma i bisogni sono enormi. Non si può voltare la testa dall’altra parte!”. È un grido accorato quello che scuote Fiammetta Cappellini, responsabile Avsi ad Haiti, organizzazione no profit che dal 1972 realizza progetti di aiuto allo sviluppo in 32 Paesi del mondo. Lei conosce benissimo l’isola caraibica, ci vive da 14 anni. Ha perfino messo su famiglia: un marito haitiano e un figlio di 12 anni. È preoccupatissima per il suo Paese di adozione e la sua gente, come non mai. Negli anni, quelli che vivevano nelle tendopoli e poi nei rifugi temporanei hanno ricevuto un po’ di denaro per spostarsi fuori dalla capitale. Risultato: si sono sistemati in un terreno incolto e inospitale a 3 km da Port-au-Prince e hanno costruito una immensa bidonville con case abusive, Canaan, con materiali di scarto, spesso recuperato dai crolli, senza servizi di nessun genere. Ci vivono almeno 300.000 persone, in condizioni disumane, forse molti di più.
“Se domani accade un nuovo terremoto fa il doppio dei morti, ne siamo sicuri. È una situazione che fa paura”,
mette in guardia Cappellini, parlando al Sir dalla sede Avsi di Port-au-Prince.
Commemorazioni in sordina. Questo è un periodo insolitamente tranquillo, dopo le manifestazioni e le violenze degli ultimi mesi per chiedere le dimissioni del presidente Jovenel Moïse (che non ne vuole sapere di andarsene). Stranamente in questi giorni gli operatori non sono costretti a lavorare barricandosi in casa. Anche la popolazione si muove con meno cautele. Ma non durerà a lungo. Ogni anno il 12 gennaio le autorità pubbliche organizzano una commemorazione ufficiale davanti alle fosse comuni dove sono sepolte le vittime del terremoto, alla periferia di Port-au-Prince.
“Quest’anno è probabile che non si farà per questioni di sicurezza”, spiega la cooperante.
“Oppure si svolgerà molto in sordina”. L’altro appuntamento fortemente temuto è quello del 7 febbraio, una data doppiamente significativa per Haiti: nel 1986 il presidente a vita Jean-Claude Duvalier, soprannominato ‘Baby Doc’, scappò dal Paese. Cinque anni dopo, nel 1991, Jean-Bertrand Aristide, ex presbitero e leader carismatico, diventa presidente, il primo democraticamente eletto dopo decenni di dittatura. Le organizzazioni umanitarie sono in allerta:
“Ci aspettiamo nuove ondate di manifestazioni e proteste, anche se prevedere cosa succederà ad Haiti è sempre difficile”.
Il 75% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno. Tra i dati più drammatici c’è il fatto che la metà della popolazione, circa 4 milioni di persone (su 10,9 milioni di abitanti), è ridotto alla fame perché non ha i soldi per procurarsi il cibo. L’inflazione è altissima, la gente non può andare a cercare lavoretti saltuari per paura della criminalità. Il 75% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno. La situazione sanitaria è disastrosa. Alcuni ospedali sono stati ricostruiti ma sono chiusi o senza personale (perché non ci sono i soldi pubblici per pagare medici e infermieri). Nelle scuole ci sono pochi insegnanti. La sanità è a pagamento, altrimenti bisogna portare con sé garze e siringhe e solamente sperare.
La ricostruzione: inefficienze e poche ricadute sulla comunità locale. La comunità internazionale aveva stanziato per la ricostruzione 6,4 miliardi di dollari: il 97% è andato ad aziende straniere dei Paesi donatori. “Confermo questa cifra – precisa Cappellini – ma era impensabile fare la ricostruzione con le imprese nazionali: qui non ci sono ponti, tunnel, cavalcavia, infrastrutture. È vero che l’aiuto internazionale avrebbe potuto fare meglio e che ci sono stati sprechi e inefficienze. È vero anche che la ricostruzione è stata fatta da imprese straniere che cercavano solo il profitto. E che il 90% è andato alla cooperazione internazionale e pochissimo alle organizzazioni locali di base”.
“Ma non c’erano e non ci sono ancora alternative”.
I rischi per gli operatori umanitari e lo staff locale. Il lavoro degli operatori umanitari procede tra rari momenti di calma, coprifuochi notturni e intere settimane chiusi in casa durante le proteste violente. Avsi al momento ha impiegato 15 operatori come personale espatriato (di cui 13 italiani) e 250 haitiani. “Nessuno vuole più venire a lavorare ad Haiti, è una situazione veramente difficile. Molti stanno partendo per mettere in sicurezza le famiglie – ammette la responsabile Avsi –. Voglio però sottolineare che ad affrontare i rischi maggiori è lo staff locale. Noi continuiamo la nostra azione ma ci interroghiamo sempre sulle possibili ripercussioni sui beneficiari della nostra azione, i bambini, le persone vulnerabili, che per usufruire dei nostri servizi devono uscire di casa”. Avsi è presente ad Haiti dal 1999 e lavora in tutta l’isola con progetti socio-educativi, di sicurezza alimentare, per la risoluzione dei conflitti, il sostegno a distanza per 1.000 bambini, progetti di sviluppo agricolo a favore di 9.000 contadini. Nell’emergenza post terremoto hanno aiutato 45.000 persone e costruito 17 strutture, scuole e centri nutrizionali.