Dopo lo shock del referendum

Un Nobel per la pace a tutti i colombiani che “non hanno mai perso la speranza”

Un gesto di fiducia e di speranza arriva da Oslo con l’assegnazione del premio Nobel per la Pace al presidente della Colombia Juan Manuel Santos. Riconoscimento amplificato dalle prime reazioni internazionali, tutte favorevoli, compresa quella dell’Onu, che in modo inusuale ha commentato l’avvenuta assegnazione. La comunità internazionale sta incitando all’unisono la Colombia, impegnata nell’ultima salita finale per raggiungere il traguardo della pace, dopo 52 anni di guerra. Al presidente i twitter con le congratulazioni delle Farc ma anche di Uribe, suo grande avversario

Un investimento sulla pace. Un gesto di fiducia e di speranza arriva da Oslo con l’assegnazione del premio Nobel per la Pace al presidente della Colombia Juan Manuel Santos. Riconoscimento amplificato dalle prime reazioni internazionali, tutte favorevoli, compresa quella dell’Onu, che in modo inusuale ha commentato l’avvenuta assegnazione. La comunità internazionale sta incitando all’unisono la Colombia, impegnata nell’ultima salita finale per raggiungere il traguardo della pace, dopo 52 anni di guerra. Già, perché domenica scorsa si è capito quanto sia difficile ottenere la pace se non la si è mai vista né conosciuta. Ad un passo dalla linea a scacchi la Colombia si è fermata, i (pochi) che sono andati a votare per il referendum confermativo dell’accordo tra il Governo e la guerriglia delle Farc hanno detto “no”. I motivi sono stati tanti: alcuni limiti dell’accordo stesso, percepito come troppo benevolo verso la guerriglia, la mancanza di informazioni, la paura, la sfiducia, il regolamento di conti tra il presidente Santos e il suo predecessore, Álvaro Uribe Vélez. Fatto sta che la Colombia domenica scorsa si è fermata sul più bello e il riconoscimento arriva da Oslo proprio nel momento giusto per provare a riprendere la faticosa marcia. O quanto meno per non scivolare indietro.

Qualche segnale di speranza, d’altronde era già arrivato in questi giorni.

La guerriglia ha confermato che la sua scelta di deporre le armi è irreversibile; Santos mercoledì si è incontrato con Uribe, con il quale non si parlava da cinque anni; decine di migliaia di persone sono scese in piazza lo stesso giorno in una manifestazione promossa dagli studenti di ventisei università.

Se il referendum fosse andato in modo diverso, oggi staremmo probabilmente scrivendo di due premi Nobel: il presidente e il guerrigliero che ha chiesto perdono, Rodrigo Londoño, detto Timochenko, il capo delle Farc. In questa situazione di incertezza il Comitato per il Nobel non se l’è sentita. Così l’onore tocca solo a Santos. Che certo non è stato nella sua vita un pacifista convinto (è stato ministro della Difesa di Uribe, con fama di falco). Ma, una volta diventato presidente, nel 2010, ha deciso di mettere in gioco se stesso sposando la causa della pace e perseguendo con determinazione l’obiettivo. Le ultime due settimane sono state per lui un drammatico ottovolante: la gloria della firma ufficiale del trattato a Cartagena, davanti a decine di capi di Stato, il 26 settembre; l’imprevista doccia fredda del referendum il 2 ottobre. Stanotte (in Colombia erano le tre del mattino) ha avuto un brusco ma sorprendente risveglio. Sulla decisione ha certo pesato il fatto che proprio la Norvegia è stato il paese garante del processo di pace. Ma questo non intacca la bontà della scelta, se capita e interpretata nel modo giusto. Nelle motivazioni del premio si legge che esso “deve essere visto come un tributo a quei colombiani che, a fronte di tante difficoltà e abusi, non hanno perso la speranza” e, soprattutto come un tributo “alle innumerevoli vittime della guerra civile”. Ha detto subito Santos ai colombiani: “Questo premio è vostro, lo riceverò in nome delle vittime”. Negli stessi istanti riceveva via twitter le congratulazioni delle Farc ma anche di Uribe. Una settimana fa non sarebbe accaduto. E tutto il mondo torna a dire: “Forza Colombia”.