
In Italia sono circa 2.500 i soci dell’Associazione italiana persone Down (Aipd), con 55 sedi distribuite su tutto il territorio nazionale. Solo a Roma, l’Aipd accompagna quasi 400 famiglie nel percorso educativo e relazionale dei figli con sindrome di Down. A guidare la sezione capitolina è Giancarlo Giambarresi, vicepresidente nazionale dell’associazione: “Abbiamo una metodologia unica, condivisa in tutte le sedi, con operatori formati e aggiornati”. L’obiettivo non è l’assistenza, ma la crescita; prima ancora dell’autonomia, ciò che conta è l’autostima: “Questa è la vera corazza che ti aiuta a camminare, anche quando la strada si fa in salita. E questo vale per tutti, anche per noi”.
Negli ultimi anni, la percezione pubblica della sindrome di Down ha conosciuto un’evoluzione. Sempre più frequentemente, volti e storie compaiono in spot pubblicitari compaiono in spot, programmi televisivi, campagne istituzionali…
I ragazzi con sindrome di Down – e con loro gli adulti – hanno vissuto un’evoluzione molto positiva. Rispetto a quarant’anni fa, quando venivano emarginati, rinchiusi nei manicomi o chiusi in casa, oggi sembra quasi di toccare il paradiso.
La scuola ha avuto un ruolo fondamentale: è il primo luogo di socialità e formazione. Per noi, questo è motivo di grande gioia.

(Foto SIR)
E il mondo del lavoro? Sta davvero diventando terreno fertile per l’inclusione o perdurano resistenze culturali?
Abbiamo segnali incoraggianti. Le aziende ci chiedono spesso nuovi inserimenti, ma molti ragazzi sono già occupati. A volte non abbiamo abbastanza persone da proporre. È vero, ci sono normative che agevolano l’assunzione, ma l’attenzione che riscontriamo è sincera. Ieri, durante un convegno, quattro aziende hanno raccontato di aver assunto nostri ragazzi con contratti a tempo. Sono segnali importanti.
Ma non tutti hanno le stesse possibilità. Come evitare che i casi virtuosi restino isolati?
È vero, ci sono situazioni con difficoltà maggiori. Non tutto è come appare nelle pubblicità. Ma si tratta sempre di lavoro vero, non di assistenzialismo.
Ogni persona, con le sue caratteristiche, ha diritto a essere riconosciuta come risorsa.
Qual è, concretamente, il percorso che accompagna un giovane con sindrome di Down verso l’autonomia professionale?
Terminata la scuola, non si entra automaticamente in azienda. Studiamo il profilo del ragazzo, le sue attitudini, la sua identità lavorativa. Poi accompagniamo il percorso con un tutor. Quando l’azienda ci dice che può camminare da solo, ci facciamo da parte. Non tutti ce la fanno: alcuni si scoraggiano, capiscono che il lavoro idealizzato è diverso dalla realtà. Ma anche questo è parte del processo.
Qual è per voi, come associazione, la maggiore gratificazione?
La percezione dall’esterno. Alcuni cittadini ci riconoscono come cooperativa eticamente pulita, che lavora con serietà per migliorare la qualità della vita dei ragazzi. Questo, nonostante i nostri limiti, ci dice che siamo sulla strada giusta.
Sul fronte scolastico, tra luci e ombre, qual è il bilancio attuale?
Rispondo con un esempio personale. Mio figlio, 12 anni, parteciperà ad aprile a una gita. Mi avevano detto che non avrebbe avuto l’Oepa e avrebbe dormito con gli altri. Ho chiesto che fosse garantita un’assistenza adeguata. Dopo le mie proteste, il problema è stato risolto. Mi hanno presentato la persona che lo accompagnerà: sarà la sua prima esperienza fuori casa. Non tutto va male.
Direi che nell’80% dei casi ci sono insegnanti sensibili e attenti.
L’autonomia è spesso presentata come obiettivo prioritario nei percorsi educativi. Ma cosa significa davvero?
Per noi è un punto centrale. I nostri percorsi di autonomia sono strutturati: i ragazzi imparano ad attraversare la strada, prendere l’autobus, orientarsi, fare piccole spese. Sempre accompagnati, ma mai sostituiti. Ricordo un ragazzo che aveva fatto varie volte il tragitto in autobus con noi. Poi gli abbiamo detto: “Ora vai da solo”. Lo abbiamo seguito a distanza. È andata benissimo. Questa è autonomia.
E sul piano affettivo? Ci sono relazioni, fidanzamenti?
Sì, e sono spesso più stabili di quelle tra normodotati. Conosco coppie che stanno insieme da tre, quattro, sei anni. È un amore puro, senza malizia. Sono relazioni tenere e vere. E noi lasciamo fare: al cuore non si comanda.
C’è un tema delicato, quello della diagnosi prenatale. In alcuni Paesi europei si assiste a una sorta di selezione eugenetica.
Ogni persona è una domanda di vita. Se nasce, è perché ha diritto a vivere. Non puoi metterla da parte, non puoi eliminarla.
Anche chi nasce con una difficoltà è portatore di senso. Chi ha fede, chi ha rispetto per l’altro, questo lo comprende.