Andare oltre l’approccio medico, assistenzialista e riabilitativo, per mettere al centro la persona con disabilità. Non solo bisogni, ma anche diritti, desideri, interessi e potenzialità da alimentare e promuovere. Invita ad un deciso cambio di mentalità Francesca Di Maolo, presidente dell’Istituto Serafico di Assisi, intervistata dal Sir in occasione della Giornata internazionale per i diritti delle persone con disabilità che ricorre oggi.
Presidente, la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità (13 dicembre 2006) ribadisce il principio di uguaglianza e la necessità di garantire ad esse la piena ed effettiva partecipazione alla sfera politica, sociale, economica e culturale della società. Eppure, quanti di loro sono ancora “cittadini invisibili”?
La strada dell’attuazione dei diritti fondamentali delle persone con disabilità è ancora lunga da percorrere, ma il cammino intrapreso ha raggiunto numerose tappe importanti. La Convenzione Onu e la recente Carta di Solfagnano, siglata dai ministri al termine del G7 su Inclusione e disabilità, hanno un valore importante che è quello di rendere intangibili i diritti fondamentali di queste persone. Ma per realizzare una società inclusiva è necessario l’apporto di ciascuno di noi, non bastano le politiche delle istituzioni. In fondo le Costituzioni e, in generale, le Carte che contengono i principi fondamentali delle persone, sono sempre affidati alla vigilanza e all’operosità della comunità: madri, padri, lavoratori, giovani cittadini, educatori, volontari. In ogni contesto ciascuno di noi può fare la differenza.
L’inclusione ci riguarda tutti; è l’unica strada da intraprendere per un reale sviluppo integrale.
“Rendere il mondo inclusivo significa non solo adattare le strutture, ma cambiare la mentalità, affinché le persone con disabilità siano considerate a tutti gli effetti partecipi della vita sociale”, il monito di Papa Francesco ai ministri partecipanti al G7 inclusione e disabilità che lei ha appena citato. Qual è l’apporto che queste persone possono offrire alla società?
Ogni persona ha delle risorse importanti da spendere per lo sviluppo sociale e integrale, indipendentemente dai propri limiti. Ma per costruire una società inclusiva abbiamo la necessità di coinvolgere le persone con disabilità in tutti i contesti anche decisionali. Si tratta realmente di cambiare mentalità e guardare alle persone con disabilità non come semplici “oggetti” di prestazioni, ma
soggetti con una dignità piena e incondizionata e liberi di vivere una vita piena.
Nei mesi scorsi Cbm Italia ha presentato il primo rapporto su disabilità e povertà delle famiglie in Italia, realizzato in collaborazione con Fondazione Zancan, dal quale emerge che i disabili e i loro familiari lamentano un isolamento difficile da superare e che, rispetto agli altri cittadini, sono a maggiore rischio povertà. A che punto è la cultura dell’inclusione, di uno sviluppo inclusivo?
Si tratta di un’indagine molto interessante dalla quale è emerso che gli aiuti richiesti più frequentemente dalle persone con disabilità, perché non ricevuti o ricevuti in misura insufficiente rispetto ai bisogni, riguardano l’assistenza sociosanitaria e quella sociale per il 39% degli intervistati, e solo per il 25% l’aiuto economico rappresenta la principale domanda di aiuto. Questo significa che non bastano gli aiuti economici per rispondere alle esigenze primarie delle persone con disabilità, perché mancano i servizi.
La cultura inclusiva richiede un impegno serio delle istituzioni, del terzo settore e dei singoli cittadini per la realizzazione di reti di opportunità in ogni ambito del vivere.
Senza questo impegno le persone con disabilità sono a maggiore rischio di povertà e di emarginazione.
In occasione del G7 di ottobre lei mi diceva che l’abbattimento delle barriere architettoniche e l’elargizione di sussidi non bastano. Quali gli interventi più urgenti? L’aggiornamento dei Lea e del nomenclatore tariffario? Altro?
Sul versante socio-sanitario occorre certamente integrare i Lea.
Attualmente i bisogni riabilitativi e assistenziali sono riconosciuti in modo più incisivo in età evolutiva e sembra quasi che con il raggiungimento della maggiore età i bisogni delle persone con disabilità si attenuino. Ma non è così. E non solo perché con l’avanzare dell’età possono subentrare nuove complicazioni e cronicità, ma anche perché l’età avanza anche per i caregiver che si vedono diminuire forze e capacità di assistenza. Le barriere non sono solo quelle architettoniche; i limiti all’accessibilità li troviamo ancora nei musei, nelle città, ma anche negli ospedali dove spesso mancano strumenti diagnostici accessibili, percorsi prioritari per gestire i bisogni specifici dei pazienti con disabilità e un’adeguata formazione sulla disabilità. Il rapporto sull’equità sanitaria per le persone con disabilità, pubblicato di recente dall’Oms, mostra che, a causa delle disuguaglianze sanitarie sistemiche e persistenti, molte persone con disabilità corrono il rischio di morire molto prima, anche fino a 20 anni prima, rispetto alle persone senza disabilità. Hanno infatti un aumentato rischio di sviluppare condizioni croniche, fino ad un rischio doppio di asma, depressione, diabete, obesità, malattie orali e ictus. Molte differenze negli esiti di salute non possono essere spiegate dalla condizione di salute sottostante o dalla menomazione, ma da fattori evitabili, quindi, iniqui e ingiusti.
Come valuta la riforma sulla disabilità (legge 227/2021) che, tra le altre cose, introduce e la presa in carico della persona tramite il progetto di vita?
Questa riforma rappresenta una svolta non solo per i suoi contenuti innovativi, ma anche per la partecipazione che l’ha contraddistinta, in quanto è stata accompagnata da tutto il mondo associativo che si occupa di disabilità.
Ogni persona con disabilità ha finalmente diritto ad un progetto di vita a partire dai suoi desideri, preferenze e aspettative.
Un progetto che deve integrare gli interventi sociali, educativi, sanitari e assistenziali, ma anche ricreativi e sportivi, senza più frammentarli. Saranno i diversi enti a doversi incontrare per la persona, e non la persona a dover “bussare” alle varie porte per organizzare segmenti della propria esistenza. Con questo approccio che riporta ad unità le dimensioni del vivere, la persona non sarà più vista come un semplice utente di singoli servizi, ma come una persona con le sue esigenze, i suoi interessi e le sue potenzialità da alimentare e promuovere. Il progetto di vita, in questi termini, non è più un generico programma. Siamo tutti consapevoli che per il suo successo non basterà studiare e comprendere la nuova normativa, ma occorrerà cambiare approccio e mentalità. Dovremo imparare a confrontarci, a fare rete e a gestire in modo flessibile le risorse, ma soprattutto dovremo imparare a
fare silenzio per ascoltare, prima di ogni altra cosa, la voce della persona con disabilità e il suo caregiver.