Carcere. Caritas italiana: “Favorire misure alternative, accoglienza e reinserimento lavorativo e sociale”

“Giustizia e speranza: la comunità cristiana tra carcere e territorio” è il tema del convegno in corso oggi a Roma, organizzato da Caritas italiana. Una occasione per interrogarsi sul ruolo delle comunità cristiane rispetto al mondo del carcere, sia all’interno delle mura, sia nei territori. I due terzi delle 217 Caritas diocesane sono infatti impegnate nell’ambito della giustizia

Foto Calvarese/SIR

In Italia 2 persone su 3 stanno seguendo un percorso giuridico fuori dal carcere. Il principio “fuori dal carcere, il prima possibile e accompagnati” ha fatto da sfondo al convegno “Giustizia e speranza: la comunità cristiana tra carcere e territorio” in corso oggi a Roma su iniziativa di Caritas italiana. Attualmente le carceri italiane ospitano 61.862 persone recluse a fronte di 51.196 posti disponibili. Un sovraffollamento che incide pesantemente sulle condizioni detentive. Ad esempio negli ultimi due anni i detenuti sono aumentati di 6.467 unità mentre i posti in carcere sono solo 226 in più. 91.369 persone stanno scontando la pena fuori dal carcere. Sono invece ancora 16 le mamme recluse con 18 bambini al seguito e sono stati purtroppo 80 i suicidi in carcere durante il 2024, un dato che si sta avvicinando all’annus horribilis 2022, quando furono 84. I due terzi delle 217 Caritas diocesane sono impegnate nell’ambito della giustizia. Le Caritas, il volontariato carcerario, i cappellani, le istituzioni, si sono interrogati oggi su come restituire dignità a chi compie reati e alle vittime, anche tramite la giustizia riparativa.

Il ruolo della comunità cristiana. Ne è emerso un documento, nel quale si sottolinea quanto sia importante che la comunità cristiana “sia presente in vari momenti dei percorsi giudiziari: entra in carcere come richiesto dall’Ordinamento penitenziario per il sostegno morale e per avviare percorsi di reinserimento; nel territorio per accogliere e accompagnare durante la misura alternativa, in particolare con l’accoglienza residenziale per chi non ha una casa e favorendo l’inserimento lavorativo; per creare una cultura della giustizia riparativa, al fine di tener presenti in ugual misura i bisogni delle vittime, degli autori e di tutti coloro che hanno subito un danno dal reato, sostenendo dialoghi e incontri che possono portare ad un senso di giustizia più pieno”.

(foto: Caiffa/SIR)

La sicurezza “non è un tema che possiamo regalare agli sceriffi di turno”, ha affermato il card. Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei. “Non possiamo accettare l’ignoranza rispetto alla cultura giuridica italiana”, ad esempio quando si dice di chi commette reati: “che marcisca in carcere”.

Il giustizialismo, ha precisato, “è la cosa più offensiva e pericolosa per la giustizia”,

e “il cattivismo rende ignoranti e inconsapevoli” e non assicura la sicurezza. Secondo il presidente della Cei sono le misure alternative a garantire la vera sicurezza nei territori, ossia “tendere alla rieducazione, alla rieducazione. Ma per questo c’è bisogno di strumenti e finanziamenti”.

“Fuori dal carcere il prima possibile e accompagnati”. Dello stesso tono l’intervento di monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, arcivescovo di Gorizia e presidente di Caritas italiana: “Fuori dal carcere, il prima possibile e accompagnati: è ciò che l’esperienza di molte Caritas e di molte altre realtà di volontariato indica come via doverosa per affrontare il problema della pena e del reinserimento”. “Scontare una pena fuori dal carcere, ove possibile, è prima di tutto conveniente per la comunità: la recidiva diminuisce, i costi diminuiscono, le persone possono riprendere il corso di una vita regolare e diventano cittadini attivi”. Il presidente della Caritas ha concluso ricordando che il Papa durante il Giubileo aprirà una Porta santa in un carcere, “un gesto simbolico per guardare all’avvenire con speranza”.

(foto Caiffa/SIR)

Dietro i reati commessi c’è “lacerazione sociale”. Il presidente del Centro di ricerca European Penological center dell’Università Roma Tre Mauro Palma ha invitato a interrogarsi sulla “lacerazione sociale”, vera ragione che è dietro i reati commessi, mentre oggi si punta l’attenzione solo sugli autori inasprendo le pene. “Siamo arrivati al punto – ha osservato – che si vorrebbero applicare norme penali perfino contro chi non manda i figli a scuola. È una semplificazione di una questione complessa.

Sappiamo benissimo che dare una percezione della sicurezza attraverso l’estensione di penalità non ha mai funzionato”.

Il cappellano del carcere di Salerno don Rosario Petrone ha raccontato le sue difficoltà, 16 anni fa, nel confrontarsi inizialmente con il mondo del carcere. Tra gli interventi concreti realizzati sul territorio la Casa Domus Misericordiae, che ospita persone che fruiscono di misure alternative: “L’80% degli ospiti ha recuperato la vita, il lavoro e le relazioni con la famiglia”. Uno dei problemi più gravi presenti oggi all’interno delle mura del carcere, ha osservato, sono le nuove dipendenze.

“L’uso del crack e di altre droghe stanno producendo patologie psichiatriche gravi. Abbiamo bisogno di psicoterapeuti e psichiatri e di più volontari”.

Il suo auspicio è che la Caritas organizzi anche “percorsi di formazione per gli operatori pastorali nelle carceri”, anche nel campo della giustizia riparativa.

(foto Caiffa/SIR)

In ascolto dei bisogni materiali e relazioni delle persone. Dal punto di vista delle istituzioni Lucia Castellano, provveditrice dell’Amministrazione penitenziaria della Campania ha detto: “Non possiamo plasmare i nostri ospiti come se fossimo dei piccoli “padrieterni’. Voi dovreste aiutarci a diventare più accoglienti”, anche attraverso tavoli di lavoro comuni tra direttori degli istituti, Caritas e volontariato. Rosa D’Arca, del Vic (Volontariato in carcere), ha ricordato che il ruolo dei volontari “è mettersi in ascolto dei bisogni delle persone, materiali e relazionali”. Tra le esperienze significative di giustizia riparativa c’è quella della Caritas di Verona, descritta da Alessandro Ongaro: “La sicurezza si costruisce attraverso la conoscenza delle persone. La comunità deve capire se la persona che ha compiuto il reato può diventare responsabile e imparare a stare accanto alle vittime, anche se non è facile stare vicino a persone che soffrono tanto”.

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