Settimo giorno alla Mostra del Cinema. In gara il terzo italiano, Luca Guadagnino, che si presenta con il dramma “Queer”, adattamento dell’omonimo romanzo di William S. Burroughs, scrittore esponente della Beat generation. Protagonista l’ex James Bond Daniel Craig, che veste i panni del giornalista William Lee di stanza a Città del Messico, dove vive un’esistenza giocata tra dipendenze da bottiglia, oppiacei e un amore logorante per un ventenne. Un viaggio tra eccessi, dimensione onirica e allucinazioni, che si avvita in una spirale dolente e (auto)distruttiva. Opera esteticamente colta e curata, tematicamente problematica e sfidante. Sempre in Concorso troviamo “Harvest” della regista greca Athina Rachel Tsangari, un dramma storico di finzione ambientato sulla soglia della rivoluzione industriale, un racconto di impianto metaforico che esplora il rapporto uomo-natura, individuo-comunità, all’interno di un ecosistema rurale. Uno spazio dove l’umanità invece che evolversi si degrada tra inganni, soprusi e violenze, sotto la spinta di false credenze popolari e desiderio di potere. Protagonista Caleb Landry Jones, in un’altra interpretazione che lascia il segno dopo “Dogman” (2023). “Harvest”, nonostante le suggestioni acute, rischia di spiaggiarsi in un dramma appesantito da una struttura narrativa “fredda” e logorante. Il punto dalla Mostra.“Queer”
Punto di forza della vis narrativa di Luca Guadagnino è la dimensione estetica, quello sguardo indagatore e innovatore sospinto da una tensione al bello, all’eleganza. Ma la dimensione estetica è anche il suo punto di debolezza: uno sbilanciamento a volte troppo eccessivo sulla confezione formale a scapito della struttura narrativa. Succede proprio questo nel suo nuovo film “Queer”, in Concorso a Venzia81. L’opera è l’adattamento del romanzo di matrice biografica, uscito nel 1985, dello scrittore statunitense William S. Burroughs. La sceneggiatura è firmata da Justin Kuritzkes, che con Guadagnino ha già lavorato in “Challengers” (2024). Protagonista il divo inglese Daniel Craig, iconico interprete di James Bond (5 titoli tra il 2006 e il 2021), ma anche di “Millennium. Uomini che odiano le donne” (2011) e “Knives Out” (dal 2019). Nel cast, inoltre, Drew Starkey, Lesley Manville e Jason Schwartzman.
La storia. Città del Messico, 1950. William Lee è un giornalista statunitense ormai stabile in territorio messicano, dove passa le sue giornate tra la macchina da scrivere (che usa ben poco) e la frequentazione di locali, dove si lascia andare ad alcol, droghe e incontri occasionali. Nel suo incedere ripetitivo e autodistruttivo si imbatte nel ventenne Eugene Allerton. William perde la testa per lui, subendone fascino e ambiguità. Tra i due nasce una relazione, che però si snoda tra alti e bassi. Desideroso di conquistarlo, lo scrittore chiede a Eugene di seguirlo in un viaggio in Sudamerica, alla ricerca della fantomatica radice/liana yage, dalle proprietà speciali…
Così Guadagnino nelle note di regia: “How can a man who sees and feels be other than sad? Si chiede William Burroughs nel suo diario personale l’ultima volta che vi scrive prima di morire. Nell’adattare il suo secondo romanzo, uscito quasi quarant’anni dopo che l’aveva scritto, abbiamo cercato di rispondere a questa invocazione pudica del grande iconoclasta della beat generation. Lee ama Allerton, Allerton ama Lee: saranno in grado di incontrarsi nonostante tutti i passi falsi e le paure che agiscono su entrambi nel loro viaggio picaresco nel Sud America?”.
Luca Guadagnino porta sullo schermo la vita e le pagine di Burroughs, di cui racconta anzitutto il suo rapporto con se stesso, la propria omosessualità, interrogandosi spesso sull’appellativo “queer”. Ancora, snocciola le sue giornate fatte di alcol, droga e sesso occasionale. Una routine senza senso e direzione. L’incontro con il ventenne Eugene lo destabilizza come una scossa elettrica, rendendolo impacciato, goffo e “ossessionato”. Tra i due divampa la passione, che il regista mostra sullo schermo in maniera esplicita.
Il film “Queer” non traballa (solo) per la vita di dipendenze, dissoluta, del suo protagonista. A risultare incerta è la linea del racconto, il suo svolgimento. Se la prima parte a Città del Messico possiede ritmo, approfondimento e cura formale, nei successivi snodi narrativi in America del Sud e nella giungla, il racconto risente di lungaggini e dispersioni, come pure di eccessive suggestioni estetiche, tra l’onirico e il delirante, che spingono quasi a deragliare. E il talento interpretativo di Daniel Craig – come pure della sempre notevole Lesley Manville – non può da solo bastare. Film complesso, problematico.
“Harvest”
Di casa nel cinema hollywoodiano, nelle vesti di regista, produttrice ma anche docente universitaria, l’autrice greca Athina Rachel Tsangari si presenta in gara alla Mostra con un film giocato sul rapporto uomo, natura e corruzione. È “Harvest” (dall’inglese “raccolto”), un film di respiro western calato però in una realtà agricola preindustriale, apparentemente nordeuropea, dal romanzo omonimo di Jim Crace. Protagonista il sempre sorprendente Caleb Landry Jones, che nel 2023 ha conquistato critica e pubblico al Lido nel film “Dogman” di Luc Besson. Nel cast di “Harvest” anche Harry Melling.
La storia. In un villaggio senza nome né tempo, Walter vive immerso nella natura, dedito alla coltivazione della terra e alla pastorizia. Abita in quel villaggio insieme all’amico di infanzia, nonché proprietario terriero Charles. Entrambi hanno perso le proprie mogli e la campagna è diventata la loro unica occupazione. Nel corso di una settimana si susseguono una serie di avvenimenti che sconvolgeranno irreparabilmente le loro esistenze…
“Harvest – racconta la regista – si svolge in un mondo liminale, e illustra le prime crepe della ‘rivoluzione’ industriale. Che rivoluzione non è stata. Una comunità agricola viene sconvolta da tre tipi di forestieri: il cartografo, il migrante e l’uomo d’affari, tutti archetipi di cambiamenti sconvolgenti. Il futuro non fa parte della storia: accadrà fuori dallo schermo, in un mondo che non siamo destinati a vedere. Non ci sono eroi. Solo persone comuni e imperfette”.
Tsangari firma una dolente riflessione sulla perdita di innocenza dell’uomo, della vita comunitaria agricola, con l’avvento della rivoluzione industriale. La modernità porta con sé apparente progresso, sottolinea l’autrice, che però riversa sulla vita dell’uomo una cultura del sospetto, della rivalsa e una diffusa amoralità. Anche il delicato equilibrio con la natura ne rimane vittima, smarrendo ogni armonia. Film ambizioso e fumoso, che si perde però in una eccessiva lunghezza (133 minuti) non supportata da una adeguata sostanza narrativa né da dinamismo del racconto. Il problema di “Harvest” è la dispersione, tra personaggi non approfonditi o lasciati uscire di scena senza troppa convinzione, e una storia nell’insieme ondivaga e senza grande mordente. La dimensione visiva è curata, pregevole, ma l’ossatura del racconto poco solida ed eccessivamente sfumata, tanto da comprometterne pathos e fruibilità. Complesso, problematico, per dibattiti.