Razzismo in Italia. Fiasco: “Chi ha responsabilità si attivi per evitare che la malattia diventi una pandemia”

“Il razzismo non è una qualità ontologica, un tratto naturale di un popolo. Il razzismo quale atteggiamento persistente di rigetto dell'altro, del diverso, concepito come alieno per qualche caratteristica e dunque stigmatizzato come malefico, cioè portatore di una minaccia, non si costruisce spontaneamente. È un’elaborata manipolazione che avviene in base a determinati fattori e condizioni”, spiega al Sir l’esperto

Foto Calvarese/SIR

Qual è l’immagine dell’Italia di oggi? Potremmo pensare ai volti puliti dei nostri atleti che si sono distinti nelle ultime Olimpiadi di Parigi. Grande entusiasmo da parte di tutti – o quasi – verso le loro imprese, anche quando il colore della pelle può essere diverso. Ma dicevamo quasi, perché non tutti hanno apprezzato allo stesso modo. Ma, allora, l’Italia è un Paese razzista? La domanda l’abbiamo rivolta al sociologo Maurizio Fiasco.

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

L’Italia è un Paese razzista?

Il razzismo non è una qualità ontologica, un tratto naturale di un popolo. Il razzismo quale atteggiamento persistente di rigetto dell’altro, del diverso, concepito come alieno per qualche caratteristica e dunque stigmatizzato come malefico, cioè portatore di una minaccia, non si costruisce spontaneamente.

È un’elaborata manipolazione che avviene in base a determinati fattori e condizioni.

Partire deduttivamente dai caratteri di un popolo per arrivare ai suoi convincimenti, in questo caso, non funziona. Infatti, il razzismo è il risultato di un’operazione che convoglia sentimenti di rancore, risentimento, disagio, frustrazione contro un bersaglio che viene proposto come causa o concausa dei deficit avvertiti dal singolo, dal gruppo, da una popolazione. Nessuno avrebbe immaginato, nella Germania degli inizi del XX secolo, una virata di massa di una popolazione, che era tra le più colte d’Europa, verso le più grandi atrocità che la storia abbia conosciuto. Insomma, bisogna capire perché qualcuno ricostruisca le condizioni di un sentimento razzista. Per le élite detentrici di una o più leve di potere intellettuale, politico, economico, il razzismo è la combinazione di una perversa visione pseudo culturale o pseudo filosofica, con “un sentimento nero” di repulsione dell’altro. In ogni caso è necessaria una simbolizzazione che funziona, quale sintesi esplicativa, tanto per le plebi ignoranti quanto per gli esteti del razzismo. Di quel che viene etichettato come tradizionalismo e oggi sovranismo.

E come si traduce concretamente questa “simbolizzazione”?

In basso le verbalizzazioni più grossolane e le frasi fatte stucchevoli: puzzano, rubano il lavoro, si prendono i nostri posti negli ospedali e nelle scuole, ricevono più attenzione dallo stato e dalla politica… Nel ceto politico o intellettuale, la religione della morte, la istituzionalizzazione della superiorità, l’evocazione del fantasma della sostituzione etnica… Dobbiamo chiederci: perché lievita il disagio e il risentimento? Perché le istituzioni culturali e della comunicazione pubblica non esercitano il filtro della qualità, ovvero lo sbarramento del livello culturale e del merito professionale inderogabile da richiedere a quanti espongono se stessi corredando i contenuti letterali scadenti con le tecniche della espressività non verbale decisamente razzista? Parliamo dunque della combinazione del rifiuto dell’altro, percepito come alieno, diverso e malefico, con il senso comune di una parte della popolazione. Popolazione in larga parte sofferente per un ventaglio di ragioni. Anche in passato, c’era la povertà, ma era fronteggiata con sentimenti buoni – grazie alle aggregazioni sindacali e politiche, alla riscoperta democrazia, al tessuto associativo del mondo cattolico, alla responsabilità delle agenzie culturali di massa come la televisione -, non con sentimenti di rancore e di risentimento. Ma non solo…

Ci dica…

Vi è poi il razzismo ideologico, elaborato e in sofisticate narrazioni, che ipnotizza una parte del ceto intellettuale,

fornisce una teorizzazione politica a formazioni che competono alle elezioni, riuscendo ad esempio ad elevare ufficiali delle forze armate, fino a quel momento semisconosciuti se non ignoti al grande pubblico, addirittura a opinion leader. Questa modalità ha portato a scoprire come risorsa politica la regressione di una parte della popolazione verso sentimenti beceri.

Come arginare questa deriva?

Mi permetto di dire che in questo ha colpa anche il cosiddetto “politically correct”, i paladini del “politicamente corretto”, che – invece di sommergere con una risata lo snocciolare di frasi becere e anche ridicole – prendono sul serio queste affermazioni, ne fanno un’esegesi e hanno fatto sì che queste posizioni ottenessero una “statura” e loro stessi acquisissero visibilità. Insomma, è un’interazione che potenzia entrambe le parti. Come poteva essere ben compreso se i paladini del politicamente corretto avessero sfogliato qualche pagina di Watzlawick: stimolo, reazione, rinforzo. E il rinforzo produce diffusione. Così le due parti – i paladini del politicamente corretto e i diffusori della subcultura razzista – si potenziano reciprocamente. Di contro, voglio citare la saggezza della pallavolista Myriam Sylla di fronte a polemiche razziste che ha commentato: “Non mi interessa, sono questioni che non mi riguardano”. È un una risposta semplice ed efficace. Certamente, c’è poi chi ha un ruolo nella comunità per lenire le sofferenze, soccorrere il prossimo, rappresentare le istanze di giustizia.

Quindi il risentimento razzista di massa nasce da questa sofferenza di cui parla?

Il risentimento razzista va a intercettare un risentimento confuso, ma profondo, che pervade una parte della popolazione italiana.

Quella che sta peggio economicamente e culturalmente, che è piena di debiti e che ormai è precipitata in una condizione di esclusione semiologica. Slang rozzi, padronanza di una quantità ridottissima di parole, modi bruschi. Questa popolazione svantaggiata incontra ogni giorno l’altro, che si presenta con connotati che non riescono a smuoverle alcuna empatia. L’altro frequenta i supermercati, si trova ai giardini pubblici. Passeggia per le strade del quartiere. Fa la fila agli ambulatori spostandosi con tutti o quasi i componenti della sua famiglia. L’attuale razzismo strumentale, ovvero politico, conferisce un qualche significato percepito da una popolazione che in realtà è, e resta, confinata nei propri deficit. Niente di nuovo, ma la tossina è entrata in circolo e chissà cosa potrà sortire, quale contagio di massa ne deriverà se non verrà fermata!

Come depotenziare questa tossina?

Il punto è concepire e quindi attivare una pragmatica che rigetti il razzismo, in basso e in alto, non come mera esortazione, ma come assunzione di responsabilità da parte di quanti abbiano un ruolo: educativo, pubblico, sociale, nella comunità e nella comunicazione. Innanzitutto, perciò, serve una reale presa in carico della sofferenza di una parte della popolazione.

In che modo?

A mio avviso, ciò che accresce il risentimento è finire in una spirale di debiti infinita.

L’indebitamento che è ripreso ad aumentare è un tema che da molti anni occupa la scena politico-istituzionale ma che nessun governo ha ancora preso in carico. Ogni punto di inflazione ci ha regalato almeno 100mila famiglie in fallimento per debiti. Ogni aumento dei tassi di interesse ha contribuito ad alimentare una quota di quelle 130mila abitazioni che ogni anno vanno all’asta in Italia perché le famiglie non riescono a pagare le rate del mutuo; ogni notizia di decurtazione del salario va tradotta in quantità di famiglie che non riescono ad assicurare quel livello minimo di decoro e dignità a sé stessi e ai propri figli come la nostra Repubblica promette nella sua Carta costituzionale.

Cosa fare allora?

Di fronte a questo bisogna costruire una pragmatica di disinnesco di tale situazione e attivare in modo corale chi ha responsabilità sociale, politica, educativa.

È necessario un coalizzarsi in maniera trasversale tra le persone che hanno responsabilità amministrative, culturali, mediatiche, pedagogiche affinché la “malattia” del razzismo non diventi una “pandemia”.

Purtroppo, gli esempi nella storia non mancano neanche nella storia patria. Il fatto che l’Italia della ricostruzione, della democrazia ci abbia fatto perdonare e permesso di uscire dagli orrori di cui siamo stati anche noi italiani protagonisti non ci deve far dormire sonni tranquilli perché quel che è accaduto potrebbe ripetersi. Gli antidoti a questo servono a demistificare una operazione che può sembrare grottesca, ma non per questo meno foriera di pericoli.

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