Per la Corte costituzionale non c’è un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza. Si tratta di un’affermazione importante. Il suicidio assistito resta un’eccezione e, dunque, non si realizza alcuna disparità di trattamento tra pazienti che dipendono da trattamenti di sostegno vitale e pazienti che non vi dipendano. Anzi la Corte ritiene – giustamente – che il requisito “oggettivo” dell’essere sottoposti ad un presidio sanitario eviti che si finisca per creare una “pressione sociale indiretta” su persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali – sono parole della Corte – “potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte”. La via italiana, secondo la Corte, è dunque legittima e corrisponde a quanto già recentemente ha ritenuto anche la Corte europea dei diritti dell’uomo. La Corte sembra però sposare una posizione per la quale il sostegno vitale non coincide necessariamente con una completa sostituzione di funzioni vitali ma possa esserlo anche il trattamento che si riveli in concreto necessario “ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo”.
(*) presidente Centro studi Scienza&Vita, componente Comitato nazionale per la bioetica