Riflettori accesi anche sulla scuola alla 50ª Settimana sociale di Trieste (3-7 luglio). “Scuola: educarsi alla partecipazione” è infatti il tema di una delle Piazze della democrazia in programma il 4 luglio. All’evento interverranno Alberto Pellai, Paola Vacchina e Francesco Magni (Museo Sartorio, Largo Papa Giovanni XXIII – ore 17:30). Per Alberto Pellai, medico, psicoterapeuta ed esperto in educazione alla salute e prevenzione in età evolutiva, la scuola costituisce il cantiere dove bambini e ragazzi si allenano alla vita preparandosi a diventare cittadini del futuro e “rappresenta l’unico grande presidio del pensiero pensante”. Lo abbiamo intervistato.
Dottor Pellai, perché portare il tema della scuola alla Settimana sociale?
Per chi sta crescendo, la scuola è in questo momento il luogo di maggiore socializzazione; è al suo interno che bambini e bambine, ragazzi e ragazze incontrano la maggior parte dei loro coetanei nella vita reale, in presenza, ed è quindi a scuola che in qualche modo acquisiscono le competenze pro-sociali e socio-relazionali. E’ inoltre il luogo degli apprendimenti, dell’acquisizione del sapere e del saper fare; costituisce quel cantiere all’interno del quale i giovanissimi si allenano alla vita preparandosi a diventare i cittadini del futuro. Oggi, infine,
la scuola rappresenta l’unico grande presidio del pensiero pensante.
Che cosa intende dire?
In un mondo “virtualizzato”, che coinvolge bambini e ragazzi nell’esperienza dell’eccitazione, della gratificazione istantanea, del divertimento, del “fallo senza pensarci troppo”, molto più che nell’esperienza della riflessione, la scuola è luogo di elaborazione, costruzione e allenamento del pensiero. Ecco perché costituisce il tema per eccellenza su cui riflettere oggi, in un tempo di grave emergenza educativa.
Quali spunti offrirà nel suo intervento alla “Piazza”?
Anzitutto una riflessione sul ruolo della scuola oggi e sul ruolo di chi è chiamato a “pensare” la scuola per adeguarla ai bisogni attuali. Mi sembra che molto di quello viene pensato, detto, generato intorno alla trasformazione dell’educazione sia quasi esclusivamente basato sulla richiesta di adeguare la scuola alla rivoluzione digitale, anche se quest’ultima si è rivelata un autogol non indifferente nel percorso di crescita e formazione di bambini e ragazzi. Inviterò ad un’inversione di rotta, a ridefinire le priorità della scuola che non devono essere quelle di seguire – o inseguire – la direzione del mondo che spinge ad entrare nei propri meccanismi, rivelatisi in realtà molto disumanizzanti e incapaci di offrire i risultati sperati. Vorrei quindi condividere una riflessione sul significato di
una scuola in grado di modellare non solo il sapere e il saper fare degli studenti, ma anche il loro saper essere.
Quanto è importante educare fin da piccoli alla responsabilità, alla partecipazione, al ruolo che ognuno di noi ha nella società e per il bene comune?
È fondamentale perché si tratta proprio di quella dimensione del progetto educativo che permette di transitare dall’io dal noi; da tutto un percorso esistenziale incentrato sull’io e sull’affermazione di sé, al noi, che è invece quel guardare alla propria appartenenza, alla comunità, e sentirsi in qualche modo attore, protagonista e responsabile non solo del proprio destino ma del destino della comunità, in piccolo prima, e poi del mondo nel quale ci si muove.
Oggi invece assistiamo, paradossalmente, al fenomeno di giovanissimi che da un lato sembrano appassionati e propensi a lottare, ad esempio per la questione palestinese, dall’altro disertano in modo significativo l’esercizio della democrazia e della partecipazione nel proprio Paese.Come se questi due aspetti fossero totalmente scollati. Lavorare per generare una mente, non tanto politica, ma una mente sociale che guardi al valore del noi in un tempo in cui si è affermato con prepotenza il valore dell’io, costituisce molto probabilmente la sfida fondamentale che anche la scuola deve imparare a cogliere.
Una sfida educativa che dovrebbe essere colta e vissuta anche in famiglia?
In realtà, questo processo “ti entra” nella vita nel momento in cui fai ingresso nella società attraverso il progetto educativo offerto dalla scuola; è difficile fare questo lavoro da soli in autonomia, o semplicemente all’interno del proprio nucleo familiare, proprio perché la famiglia rimane il luogo delle relazioni intime, dei legami ad intra, mentre la scuola è la spinta verso il fuori, verso l’altro, verso l’esterno.
La scuola dovrebbe continuare a rappresentare un elemento di unificazione, coesione e pari opportunità, certamente non di disuguaglianze. Secondo lei, che effetti potrebbe avere l’autonomia differenziata?
Avere una scuola di alto profilo che segue un progetto e un obiettivo comune da Nord a Sud e da Est a Ovest, garantendo a tutti i bambini e i ragazzi l’accesso alle medesime opportunità di formazione è premessa fondamentale e irrinunciabile. Detto questo, occorre tentare di capire se e qaunto questa autonomia verrà declinata in una logica autoreferenziale di “potere”, oppure in una logica di servizio. In questa ultima prospettiva, potrebbe rappresentare un’opportunità per consentire a leadership illuminate di proporre e sviluppare modelli alternativi, sperimentazioni e modalità di fare scuola che magari nella standardizzazione dell’omogeneità non riescono ad emergere o non sono possibili.