“Rilanciare l’affido familiare: l’interesse del minore nei percorsi di accoglienza”: di questo si è parlato in un convegno che si è svolto, il 14 giugno, all’Università Cattolica di Milano, promosso dal Centro di Ateneo Studi e ricerche sulla famiglia dell’Ateneo in collaborazione con il master “Affido e adozione e nuove sfide dell’accoglienza familiare: aspetti clinici, sociali e giuridici”, l’“Associazione Cometa” e “Famiglie per l’accoglienza”. Dopo il convegno abbiamo sentito Raffaella Iafrate, pro-rettrice dell’Università Cattolica e delegata del rettore per le pari opportunità dell’Ateneo.
Quali difficoltà incontra oggi l’affido?
Uno dei motivi per cui abbiamo proprio scelto di parlare di rilancio dell’affido è perché siamo consapevoli che il clima culturale in cui ci troviamo oggi non è tra i più favorevoli, soprattutto dopo i casi di Bibbiano e altri interventi ultimamente sulla stampa che mettono in evidenza i limiti dell’affido. Come sempre, nell’attuazione di quelli che sono i buoni propositi, può succedere che ci sia qualche incidente di percorso, ma questo non toglie la bontà dello spirito della legge del 1983 sull’affido, che negli anni è stata rivista e riattualizzata. Da studiosa che lavora su questi temi dagli anni ’80, posso dire che ho visto grandissimi sforzi proprio per adeguare la risposta al bisogno dei minori e delle famiglie, alle esigenze del contesto, ai cambiamenti della società. Tra gli aspetti fondativi dell’affido, c’è il suo essere una forma di protezione dell’essere figlio, cioè il diritto fondamentale di una persona che ha bisogno di essere riconosciuta nella sua dimensione di appartenenza filiale, di appartenenza ad una stirpe, ad una generazione, ad un’etnia, quindi nel suo diritto alla vita, senza dimenticare che per essere figlio a tutti gli effetti c’è anche il diritto alla cura, ad essere accolti, educati, sostenuti. Possibilmente si spera che questo avvenga sempre all’interno della famiglia di origine, ma non sempre è fattibile, succede che a volte la famiglia, che ha messo al mondo, per tanti motivi, non sia in grado di riconoscere il diritto alla cura. Ed è lì che interviene il sociale, diciamo giustamente, perché il diritto all’essere figlio a tutti gli effetti è un diritto fondamentale della persona, è il “diritto più democratico” perché tutti siamo figli, quindi in qualche modo è una cosa che ci accomuna tutti come esseri umani. Quando questo non è riconosciuto e non è consentito fino in fondo, è giusto che il sociale se ne faccia carico.
L’affido risulta un intervento efficace?
Sì,
l’affido è una delle forme più preziose da questo punto di vista perché lavora su una famiglia che aiuta un’altra famiglia,
questa idea che non sia un sociale astratto che aiuta le persone a sentire dei legami o che aiuti a salvare il legame, ma sia un’altra famiglia che si mette a disposizione non solo del bambino, ma anche della sua famiglia e del recupero della valorizzazione delle sue origini – perché il bambino ha bisogno per la sua identità di poter sentire riconosciute tutte queste dimensioni – è sicuramente il cuore, potremmo dire l’aspetto fondante dell’affido che poi nel tempo si è sempre più sviluppato come un’idea di aiuto reciproco tra famiglie e di reciprocità nell’accoglienza: da un lato, infatti, c’è la famiglia affidataria, che dispone ovviamente di maggiori risorse e si fa carico di una carenza evidente nell’altra famiglia; dall’altro, l’esperienza ci ha anche mostrato come in fondo anche la famiglia d’origine è chiamata a un lavoro di accoglienza nei confronti della famiglia affidataria. Insomma, l’affido funziona nella misura in cui il contesto sociale nel quale si attua l’affido favorisce un’accoglienza reciproca perché per il bambino è fondamentale poter far conto su questa alleanza, magari non è immediata, è inevitabile, umanamente comprensibile che all’inizio ci possano essere diffidenze, ci possano essere resistenze, ma il lavoro da fare è proprio quello di ricostruire una fiducia.
Quanto è difficile creare il clima di fiducia?
Il nostro convegno ha voluto dare voce e creare un ponte tra i numerosi protagonisti che affollano la complessa scena dell’affido, ovvero i minori, le famiglie, le associazioni, gli operatori sociali e le istituzioni, offrendo un luogo di confronto e dibattito pubblico per creare le condizioni perché ci sia questo clima comunitario di fiducia che garantisce la possibilità che l’affido funzioni.
Deve essere chiaro che l’obiettivo è il bene delle persone coinvolte,
quindi ci si fida del fatto che, dal tribunale all’operatore sociale e alla famiglia affidataria, tutti operino in vista di quell’obiettivo finale che è il bene del minore e della famiglia. Secondo me è stato bello nel convegno il tavolo di lavoro dove parlavano le associazioni familiari, le istituzioni, quindi il tribunale, la regione, il comune, il governo, in un clima non di reciproca diffidenza ma di fiducia, anche provando a capire il punto di vista degli altri. Come Università siamo stati testimoni di questo incontro e luogo dove si porta una riflessione scientifica, di ricerca, ma anche una sorta di terreno comune dove le persone che lavorano in questo settore si sono confrontate e hanno immaginato azioni concrete, superando anche la frammentazione.
Qual è l’obiettivo principale dell’affido?
In passato l’unico esito positivo dell’affido era considerato il ritorno del minore nella famiglia d’origine, sostenendo il bambino mentre si aiutava la famiglia a recuperare le sue energie: questo era lo spirito della legge iniziale, poi si è visto nel tempo che non sempre è possibile un rientro in famiglia, per la difficoltà di recupero della famiglia d’origine. Ci si è accorti che tra lo spirito della legge e i casi concreti ci sono anche delle distanze notevoli. Alcune ricerche, anche una che stiamo conducendo ancora adesso come Centro famiglia che ci ha visto intervistare ragazzi che sono stati in affido, ci mostrano che, anche laddove il ritorno nella famiglia d’origine concreto non c’è stato, l’affido ha funzionato, se si riscontra, ad esempio, che queste persone in qualche modo hanno portato in salvo la fiducia nei legami, che poteva essere molto minacciata da una esperienza familiare segnata da traumi, violenze, trascuratezza. Non solo: molte persone che hanno fatto esperienza di affido diventano a loro volta famiglie affidatarie e questo è un segnale positivissimo. Il fatto di non ritornare concretamente nella famiglia d’origine non vuol dire non tornarci a livello simbolico, psichico, cioè l’affido funziona quando si fa recuperare il valore dell’appartenenza originaria, anche se questa è stata segnata da fragilità e fatiche. Se grazie all’affido emergono la possibilità di accedere almeno simbolicamente a chi ti ha dato la vita e il riconoscere – al di là di tutte le fragilità e di tutte le trascuratezze, anche e al di là di tutte le violenze che si possono subire nella propria famiglia d’origine – un bene all’origine nel fatto di aver ricevuto la vita, credo che l’affido meriti di essere portato avanti come un’occasione importante per le persone di recuperare la fiducia.
Professoressa, secondo lei come si può rilanciare l’affido rispetto a tantissima pubblicità negativa sui media dopo i fatti di Bibbiano?
Bisogna ricominciare, forse come un tempo si faceva, con delle campagne di pubblicizzazione, che sottolineino il valore dell’affido e lo facciano anche conoscere, perché la cosa un po’ paradossale è che dopo 40 anni, come dimostrano anche le ricerche, a livello di popolazione generale sull’affido c’è ancora una visione del tutto inadeguata, insufficiente, spesso stereotipata con delle polarizzazioni: c’è chi dice che un bambino non si toglie mai alla sua famiglia e dietro c’è soltanto un giro di affari sporchi; e c’è chi pensa che si fanno cose belle per i minori, ma con pochissima cognizione di causa. Tra l’altro, non c’è consapevolezza di quelle che sono le varie forme innovative e anche un po’ più leggere dell’affido: in pochi sanno della possibilità di avere degli affidi part-time, degli affidi per le vacanze e weekend, degli affidi cosiddetti culturali. A Milano, ad esempio, ci sono famiglie che prendono dei bambini che hanno meno opportunità per portarli a un museo o per sostenerli in percorsi a teatro. Oppure l’affido di minori non accompagnati o l’affido di neonati, un’altra esperienza importantissima che spesso non viene conosciuta. In questo caso, il bambino nel momento in cui non viene riconosciuto alla nascita, anziché andare in un istituto in attesa di adozione, viene dato a una famiglia che lo accoglie. Ancora, quando finisce l’affido ufficiale a 18 anni spesso non si sa che esistono delle forme di accompagnamento alla transizione all’età adulta con famiglie che seguono i ragazzi nel percorso post scolastico o li aiutano a introdursi nel mondo del lavoro. A volte anche la non conoscenza fa sì che ci sia pregiudizio e non si incentivi l’apertura all’’accoglienza. Far conoscere esperienze concrete aiuta un rilancio della fiducia da un punto di vista mediatico e può anche aprire a un’idea di accoglienza famiglie che magari a livello di valori sono assolutamente predisposte ma non riescono a trovare il “grilletto” che attiva l’azione.